La famiglia di Eliezer

Eliezer, infatti, il fratello più giovane ed irruento, con la moglie Clara Stella incinta e i suoi altri cinque figli, nella primavera del ’39 decise di andarsene dall’Italia e di partire per il Sudamerica, dove ancora le frontiere per gli Ebrei in alcune nazioni non erano state chiuse del tutto e si concedevano ancora visti, seppure pochi e con difficoltà. Per lui il nipote Roberto ci dice che riuscì ”a sistemare le sue cose affidando il negozio di Faenza al commesso” (1). E’ un po’ più chiaro e più realistico Beniamino (2), nell’intervista rilasciata nel 1992, prima di decidere di partire per andare a stabilirsi in Israele.

Egli dice che suo “padre in 15 giorni aveva liquidato tutto, e da quel che ho capito poi, ci fu anche un po’ di sciacallaggio, perché era stato costretto a vendere a qualsiasi prezzo. E il negozio mio padre l’aveva affidato ad un ambulante a cui allora mio padre forniva la merce, col patto che avrebbe versato l’affitto in banca. Non solo non versò nulla, perché denunciò subito che il negozio era di ebrei, ma per riottenere il negozio, nove anni dopo, ci fu bisogno degli avvocati...”

Eliezer e famiglia riuscirono ad imbarcarsi su una nave a Genova, alla volta della Bolivia. E’ ancora Beniamino, figlio di Eliezer, a raccontare come andarono i fatti:

E andammo a Genova, lo ricordo, con la sola indicazione di un consolato della Bolivia. In un periodo in cui non davano quasi più visti, perché troppa gente si radunava a Genova per andare in Sudamerica. Una delle cose che salvò mio padre fu la conoscenza dello spagnolo, il nostro spagnolo da sefarditi, uno spagnolo antico che ci si tramanda di padre in figlio. Fu grazie a questo nostro spagnolo che al consolato presero in simpatia mio padre. Dovette però fare il biglietto di andata e ritorno. E gli fecero anche firmare una dichiarazione che si viaggiava per turismo.” (2)

Il porto di Genova in una veduta parziale del 1938.
Il porto di Genova, in una veduta parziale del 1938. https://www.marklinfan.com

 

e perché Eliezer, per carattere era alieno dal richiedere favori, decisero di andar via senza neppure pensarci troppo ed ebbero così salva la vita, pur affrontando le traversie di un viaggio di trasferimento gravoso e avventuroso verso una nazione in cui da subito si evidenziarono le difficoltà di adattamento: “Per noi il periodo in Sudamerica fu difficile. Partire con cinque figli e la moglie incinta… Ricordo mia madre all’arrivo, che vide degli indios e in particolare una donna che stava schiacciando i pidocchi del figlioletto. Scoppiò a piangere e disse che voleva tornare in Italia. Ebbe una crisi… “. E’ ancora Beniamino a raccontare (2).

Ma in Bolivia si trattennero per quasi dieci anni, finché -finita la guerra e le persecuzioni nazifasciste- tornarono nel ’48 in Italia, per curare in prima persona i loro beni ed interessi, non potendo più contare su nessun altro che lo facesse al loro posto, dovendo prendere atto fino in fondo di cosa era successo a tutti gli altri loro famigliari.

(1) Roberto Matatia I vicini scomodi, Giuntina ed., pubblicato nel 2014

(2) Da “E quando non ci saremo più noi ? Intervista a Cesare Finzi e Beniamino Matatia”, realizzata da Patrizia Betti e Gianni Saporetti, pubblicata nel febbraio 1992 su www.unacittà.it

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