Teodosio Toni e Nino Bordini.

“Tigre” e “Gnaf”.

Da partigiani, Nino Bordini e Teodosio Toni operavano insieme, uno alla mitragliatrice e l’altro, il più giovane, a reggere il nastro della cartuccera perché la mitragliatrice non s’inceppasse. Amici e compagni di lotta, accomunati da una giovanile esuberanza e da una temeraria spavalderia che, soprattutto per quanto riguardava Teo, in diversi casi preoccupava chi era coinvolto nell’azione al suo fianco, sempre pronto com’era ad offrirsi per le imprese più spericolate e difficili, che affrontava con un coraggio ed una baldanza che sembravano rasentare l’incoscienza.

Un gruppo di partigiani della 36ª Brigata Bianconcini Garibaldi. Teodosio Toni è il sesto da destra, della fila in piedi, con il maglione scuro e la falce e martello chiari sul petto. Nino Bordini, seduto in basso con la sciarpa bianca, è il secondo da sinistra.
Un gruppo di partigiani della 36ª Brigata Bianconcini Garibaldi. Teodosio Toni è il sesto da destra, della fila in piedi, con il maglione scuro e la falce e martello chiari sul petto. Nino Bordini, seduto in basso con la sciarpa bianca, è il secondo da sinistra.

 

Erano insieme, Nino e Teo, anche quando vennero feriti, quel 24 settembre del 1944, giorno in cui il gruppo partigiano del “Biondo” (Gino Agostini (1)), senza avvertire le altre formazioni vicine, sferrò un attacco contro un convoglio tedesco, che trasportava delle salmerie da Fognano, lungo la carrabile della Valletta, in direzione Zattaglia (frazione di Brisighella, prov. di Ravenna), all’altezza del doppio tornante che collega il Castellaccio al cimitero della Parrocchia di Santo Stefano(2).

Il tornante sulla Valletta, tra Fognano e Zattaglia.
Il tornante sulla Valletta, tra Fognano e Zattaglia.

 

Era l’alba di domenica e la compagnia di Kachi, di cui facevano parte Nino e Teo, ancora dormiva nella stalla delle Torri, quando fu svegliata di soprassalto dal crepitare delle armi da fuoco. Tutti i partigiani si precipitarono fuori e corsero al riparo su una piccola altura situata nei pressi, dove attesero pronti in silenzio, mentre Tigre e Gnaf, in cima, posizionavano la mitragliatrice. A un centinaio di metri di distanza, tra la fitta macchia boschiva sotto la collina, intravidero il biancore della strada, un agitarsi di uomini, animali e mezzi, e sentirono rumori confusi di grida umane, versi animali, fischi di proiettili ed armi, infine una scarica di mitraglia. Un colpo giunse fin sull’altura e riuscì a ferire contemporaneamente Teo, trapassandogli entrambe le gambe sopra al ginocchio, e Nino, fracassandogli il tallone.

Torre dei pratesi-Santo Stefano in Zerfognano, Brisighella (RA)
Torre dei pratesi-Santo Stefano in Zerfognano, Brisighella (RA)

 

Solo allora una staffetta trafelata raggiunse la postazione della compagnia di Kachi, per avvertire che gli uomini del Biondo, di stanza in una base ad appena duecento metri dalla loro, avevano assalito e circondato una colonna di soldati tedeschi.

Lo scontro si era concluso vittoriosamente per i partigiani, che erano riusciti a sopraffare i militari germanici, lasciandone alcuni cadaveri sulla strada e catturandone altri feriti, mentre i restanti tedeschi si erano dati alla fuga, sparando disordinatamente alle loro spalle, abbandonando le loro vettovaglie, armi, cavalli e muli, di cui il Biondo e compagni si erano impossessati.

Era stato proprio uno degli ultimi colpi sparati all’impazzata dai tedeschi in fuga a centrare “Tigre” e “Gnaf”. I compagni trasportarono Teo e Nino, che perdevano copiosamente sangue e non erano più in grado di muoversi autonomamente, verso la Torre dei Pratesi, e da lì alla Canonica della chiesa di Cavina S. Pietro, trasformata in infermeria della formazione partigiana, dove furono assistiti e curati da due medici e due infermiere, anch’essi inquadrati nelle file della 36ª Brigata Bianconcini Garibaldi, che nella valle del Sintria aveva le proprie basi.

La canonica di Cavina S. Pietro.
La canonica di Cavina S. Pietro.

 

Ancora zoppicanti e con le ferite appena rimarginate lì rimasero anche durante la battaglia di Purocelo, che gli altri compagni della brigata affrontarono quasi una ventina di giorni dopo, tra il 10 e il 13 ottobre 1944.

Teodosio Toni, da ragazzo.

Di famiglia d’origine forlivese, Teodosio Toni -come Nino Bordini- era nato a Faenza, il 26 marzo 1926, ma a Faenza egli rimase solo fino ai sette/otto anni, perché, quando nel 1933 morì il padre Venanzio, che era stato un attivo militante repubblicano nel periodo prefascista, poi un oppositore clandestino durante la dittatura, sua madre, Anna Rossini, decise di trasferirsi a Solarolo, dove prese residenza in via Gaiano Casanola, portando con sé i tre figli: Elio, il maggiore, nato nel ‘24, Teodosio e Colombo, l’ultimo, del ’28.

Teodosio Toni adolescente.
Teodosio Toni adolescente.

 

Anna Rossini faceva la sarta, lavorava quel tanto che bastava per garantire la sopravvivenza per sé ed i figli ed era cagionevole di salute, per cui ben presto anche i bambini, per quanto piccoli, dovettero contribuire al sostentamento della famiglia, affiancando alla frequenza scolastica il lavoro saltuario nei campi come garzoni bracciantili. Ma con la guerra soltanto il più piccolo, Colombo, rimase vicino alla madre, continuando a fare il garzone da contadino.

Elio, a fine agosto del ’43, fu chiamato alle armi e fece appena in tempo a presentarsi a Rovereto il 31 agosto, che intervenne l’armistizio e lui con i commilitoni fu prelevato dai Tedeschi, caricato su una tradotta, condotto a Onestein, nei pressi di Danzica, poi a Dortmund, dove rifiutò la proposta di entrare nell’esercito di Salò e  fu quindi inviato nella zona della Ruhr, destinato al lavoro coatto negli altiforni delle acciaierie locali, uno delle centinaia di migliaia di IMI, quegli  “internati militari italiani”, che si videro negare lo status di “prigionieri di guerra”, vennero privati delle tutele garantite dalla Convenzione di Ginevra, e dunque furono sottratti alla protezione della Croce Rossa Internazionale e obbligati al lavoro per il III Reich.

Liberato nel marzo del ’45 dagli Americani, Elio –malato- fu poi consegnato in aprile agli Inglesi, che lo fecero ricoverare e curare nel Centro Raccolta Reduci di Obermarsberg, dove rimase fino al settembre ’45, dopo di che poté rientrare in Italia, affrontando un viaggio in treno di quindici giorni attraverso la Francia, il Frejus e Torino.

La matricola militare di Teodosio Toni. Archivio di Stato di Forlì-Cesena.
La matricola militare di Teodosio Toni. Archivio di Stato di Forlì-Cesena.

 

Teodosio Toni, il  partigiano “Tigre”.

Dopo la partenza del fratello maggiore, Teo continuò a lavorare a giornata come bracciante, ma quando compì diciotto anni, nel marzo del ’44, e fu anch’egli chiamato alle armi da uno dei bandi Graziani, non si presentò, come aveva già fatto in precedenza allorché era stato convocato per svolgere dei lavori a favore dell’esercito tedesco, e decise di prendere contatto con gli antifascisti della sua zona, informandone la madre. Iniziò una vita randagia, ospitato dalle famiglie che collaboravano coi partigiani finché, guidato da due staffette, raggiunse l’alta valle del Senio e si presentò il 15 aprile 1944 alla sede del Comando partigiano della 36ª Brigata Bianconcini Garibaldi, dove fu accettato perché conosciuto da altri partigiani suoi compaesani, che garantirono per lui e venne assegnato alla compagnia di Kaki (il comandante Dato Cavallazzi, che venne poi sostituito da “Ribelle”, Rino Rossi, (3) dopo essere stato ferito il 13 settembre ’44 alla Canovazza, durante la battaglia di Castagno).

Teodosio Toni col cappellone nero e Nino con la sciarpa bianca al collo coi compagni della 36ª Garibaldi.
Teodosio Toni col cappellone nero e Nino con la sciarpa bianca al collo coi compagni della 36ª Garibaldi.

 

Teodosio scelse come nome di battaglia “Tigre”, partecipò a molte azioni, mettendosi in luce per il suo coraggio e la rapidità d’azione, perciò fu inserito nelle squadre GAP, che erano impiegate in fulminee incursioni d’attacco ai danni degli avversari, seguite da rapide ritirate, ad operazione conclusa. Nelle numerose foto che ritraggono la 36ª brigata Bianconcini Garibaldi compare talvolta con un cappello scuro a larghe tese col sottogola, che portava spesso e lo distingueva dagli altri, così come il maglione con la falce e il martello sul petto, cuciti dalla madre, a identificarne la fede comunista.

(1)La Resistenza a Bologna, cit., vol. V, testimonianza di Gino Agostini, 194-196.

(2)Testimonianza di Ettore Calderoni, il partigiano Cow Boy, in Otto settembre prima e dopo, 1979, Imola, pp. 196-202.

(3)La Resistenza a Bologna, cit., vol. V, testimonianza di Ciro Dalmonte, pag. 188, e Giovanni Pasini, pag. 193.

Nino Bordini, “Gnaf”.

Nino Bordini, “Gnaf”, in una delle ultime sue foto.
Nino Bordini, “Gnaf”, in una delle ultime sue foto.

 

“La sua faccia paffuta, i suoi occhi azzurro chiaro ed i suoi folti baffoni, gli davano un’aria sorniona e tranquilla che attirava irresistibilmente la simpatia. Era sempre di buon umore e riusciva invariabilmente a comunicarlo a chi gli era vicino. In tutte le cose coglieva e metteva in risalto il lato comico; raccontava barzellette e faceva scherzi innocui e ben congegnati. Insomma in sua compagnia il malumore passava e si prendeva gusto alla vita.”

Cosi, da innamorato della vita, ce lo descrive il partigiano “Cow Boy”, Ettore Calderoni (vedi sopra (2)), che gli fu amico e fratello nella lotta e che, quando Nino fu ferito il 24 settembre 1944, se lo caricò in spalla e lo trasportò, col tallone maciullato dalla pallottola tedesca, fino all’infermeria della Cavina, lasciandolo poi alle gradite cure delle infermiere della 36ª brigata Garibaldi.

Oltre a ciò, di Nino Bordini, Calderoni ricorda diversi aneddoti della battaglia di Castagno, che combatterono insieme, per sottolinearne da un lato il coraggio e la generosità in combattimento, come quando fu tra i primi ad accorrere dopo che i comandanti furono uccisi e/o feriti nel corso di un’imboscata, ma anche quando sostenne frontalmente da solo per due ore l’attacco delle S.S. col suo mitragliatore, dopo che erano stati colpiti a morte gli addetti alla mitragliatrice della postazione centrale, digrignando i denti per lo sforzo ed urlando d’ esultanza per ogni nemico colpito e caduto; oppure dall’altro la capacità di suscitare le risa dei compagni anche nei momenti di maggior tensione del combattimento, come quando prese a calci una mitragliatrice inceppata, che non gli aveva consentito di colpire un tedesco in fuga, imbastendo una scenetta comica, in cui finse di essersi azzoppato, tenendosi  il piede, saltellando ed imprecando, solo per divertire gli altri e stemperare l’ansia, alla fine degli scontri.

Ma Calderoni ricorda anche la sua capacità di sopportare il dolore, che gli permise -dopo uno scontro a Mercatale- di tenersi un braccio con i cinque proiettili in fila di una raffica di mitra senza farsi curare in infermeria, finendo poi per rabberciarselo da solo, sputando sulle ferite e fasciandolo con un fazzoletto sporco.

Di buon carattere e di compagnia, Nino era sempre attorno alle ragazze, infermiere della brigata, staffette o sfollate che fossero, a far l’occhiolino a tutte, da buon romagnolo. Ad identificarlo nelle foto di gruppo della 36ª Brigata Bianconcini Garibaldi, Calderoni ricorda con un pizzico di ironia la sua sciarpa bianca avvolta al collo, che indossava anche in estate, convinto di essere il più elegante della brigata, ma che secondo qualche malalingua, camuffava in realtà la sua scarsa propensione a lavarsi (Calderoni dice infatti che era inserito ad honorem nella categoria degli  “illavabili” della compagnia, quelli che non volevano lavarsi proprio mai, appellandosi anche alla scaramanzia).

Nino Bordini, con la sciarpa bianca tra i compagni della 36ª Brigata.
Nino Bordini, con la sciarpa bianca tra i compagni della 36ª Brigata.

 

Nino Bordini, che era figlio di Giovanni e Caterina Bianchedi ed era nato il 16 luglio 1922 a Faenza (RA), dove risultava residente anche nel 1943, in via Filanda Vecchia 15, era giunto alla 36ª Brigata Bianconcini Garibaldi a 22 anni, anch’egli dopo la smobilitazione dell’esercito, l’8 settembre 1943.

La famiglia Bordini
La famiglia Bordini

 

Aveva frequentato le scuole fino alla 3ª elementare, poi aveva fatto il muratore. Di leva l’11 marzo del ’41, era stato chiamato alle armi il 26 gennaio 1942 ed assegnato in Fanteria, tra i carristi, dove tra il maggio ed il giugno del ’42 era stato nominato prima carrista scelto, poi caporale, quindi era stato trasferito al 33° Reggimento carristi di Parma il 23-10-’42 ed impiegato in territorio di guerra.

Nino Bordini a 18 anni
Nino Bordini a 18 anni

 

Trasferito di nuovo al 3° Reggimento carristi di Bologna, l’8 febbraio 1943, di lui sul foglio matricolare risulta un ricovero di due mesi all’Ospedale militare di Bologna tra il 5-4-’43 ed 5-6-’43 e la successiva rinuncia ad una licenza, in cambio di Lire 81,60.

Trattenuto alle armi dal 26 luglio ’43, di lui non ci sono più annotazioni sulla matricola militare, se non la registrazione della morte, il 18 ottobre ’44, datata 7 marzo ’49, in seguito a comunicazione del Comune di Faenza.

Matricola militare di Nino Bordini. Archivio di Stato di Forlì Cesena.
Matricola militare di Nino Bordini. Archivio di Stato di Forlì Cesena.

 

Dopo la battaglia di Purocelo, la cattura e la fucilazione.

 Mentre si svolgeva la drammatica battaglia di Purocelo, che noi abbiamo raccontato nel  §.10.2. Nino Bordini e Teodosio Toni si trovavano nella Canonica della Cavina, in via di guarigione, ma non ancora in grado di spostarsi in piena autonomia. Quando la battaglia volse al termine e il comandante Bob (Luigi Tinti) fu costretto alla decisione di ripiegare e mettere in salvo i salvabili, tutti i feriti furono trasportati alla Cavina, dove si aggiunsero a Tigre e Gnaf e vennero affidati alle cure di quattro persone : il dott. Ferruccio Terzi, l’infermiera Laura Guazzaloca e i due giovani, rispettivamente infermiere e studente di medicina, Sergio Giulio Minozzi e Moretti Renato. Chi fossero i feriti che furono lasciati  qui, mentre il resto della Brigata si affrettava per attraversare il fronte e ricongiungersi con gli alleati, lo sappiamo con certezza dai registri del carcere di San Giovanni in Monte, dove in seguito furono imprigionati : oltre ai quattro sanitari, con Tigre e Gnaf si fermarono Rispoli Luigi “Napoli”, Pietro Muratori, “Carlino” e “Ferraresi Giancarlo”, identità fittizia di un partigiano che non abbiamo ancora identificato. Dalle testimonianze concordi di tanti sappiamo che qui furono lasciati dal comandante Bob anche Giovanni Borghi, “Gianni”, e Alfonso Bagni “Fonso”.

Il 14 ottobre tutti furono catturati dai Tedeschi, uomini e donne e, secondo alcune ricostruzioni, dopo un tentativo di resistenza a fuoco, in cui si sarebbero messi in luce proprio Nino Bordini e Teodosio Toni con l’apporto di quanti, tra gli altri feriti, erano ancora in grado di reggere un’arma. Fatto sta che i Tedeschi li risparmiarono – secondo le testimonianze – perché i due tedeschi fatti prigionieri dai partigiani in precedenza, trovati in infermeria con loro, erano stati curati e trattati con umanità.

Dal momento che si tratterebbe di uno dei pochi casi di clemenza messi in atto dai nazisti, dubitiamo che la resistenza armata da parte dei partigiani ci sia stata, mentre è più probabile che di fronte a tanti feriti in un’infermeria con sanitari tra cui una donna e con due dei loro curati, ed un loro medico a chiedere di non infierire, da parte tedesca si sia deciso di soprassedere momentaneamente (vedi §.10.2). Ma non andò così per il medico tedesco disertore Willy, che fu invece giustiziato seduta stante. Tutti gli altri, al seguito dei militari germanici, furono trasferiti a valle nell’ospedale di S. Eufemia, dove, in un capanno allestito approssimativamente all’esterno del nosocomio, trovarono altri feriti della Bianconcini. Come abbiamo appreso ancora dalle matricole del carcere c’erano sicuramente: Pasciuti Iliano, “Leo”, Menzolini Romolo, Brini Adelmo, “Delmo”, e Bergonzoni Guido, “Saetta”. Secondo altre versioni consolidate nel tempo qui si trovavano anche Mario Guerra, “Mao”, e Ottonelli Attilio.

Mappa del territorio della valle del Rio di Cò, con S.Maria Purocielo e S. Eufemia.
Mappa del territorio della valle del Rio di Cò, con S.Maria Purocielo e S. Eufemia.

 

Con loro i Tedeschi abbandonarono anche gli altri feriti, catturati alla Cavina. Infine, il 14, giunsero le Brigate Nere di Faenza che prelevarono tutti e li portarono a Villa S. Prospero, a Faenza, dove iniziarono gli interrogatori e le torture. Poi intorno al 17/18 di ottobre tutti furono trasferiti a Bologna, dove vennero però divisi in due gruppi: una parte fu incarcerata a San Giovanni in Monte, a disposizione dei Tedeschi, una parte fu rinchiusa in un presidio militare, più probabilmente fascista -non sappiamo- forse la Borgolocchi, dove vennero di nuovo interrogati e torturati, mentre Laura Guazzaloca veniva trasferita dapprima a Castel d’Aiano, dove risultava residente, poi a Fossoli, dove morì il 23 novembre 1944 (4).

Laura Guazzaloca, infermiera nella 36a Brigata Bianconcini Garibaldi.
Laura Guazzaloca, infermiera nella 36a Brigata Bianconcini Garibaldi.Fondo Fotografico ANPI Bologna, Istituto Parri BO.

 

Durante gli interrogatori e le torture nessuno parlò. E’ noto che per motivi di sicurezza i partigiani si erano dati un nome di battaglia ed erano all’oscuro delle generalità dei loro compagni, proprio per evitare che in caso di cattura e sevizie, qualcuno che non avesse resistito al dolore, potesse rivelare l’identità dei compagni, causando le ritorsioni dei nazifascisti sulle famiglie. Non era però il caso di questi giovani che, appartenendo in maggioranza a piccole comunità, si conoscevano per nome e cognome spesso dalla nascita. Ma né Toni né Bordini e nessuno degli altri rivelò l’identità dei compagni per salvarsi, perché nessuna delle famiglie degli altri partigiani fu perseguitata dopo la loro cattura.

Tutti coloro che furono incarcerati a San Giovanni in Monte furono prelevati il 20 ottobre 1944, firmarono la loro matricola d’uscita su cui venne segnato un  falso rilascio con affidamento ad Agenti per ordine del Comando tedesco SS e vennero portati al Poligono di tiro di Bologna e fucilati assieme ad altri detenuti selezionati con loro per la rappresaglia (vedi 10.2).Erano i tre sanitari : il medico Ferruccio Terzi, lo studente in medicina Moretti Renato, l’infermiere Sergio Giulio Minozzi, con i feriti  catturati alla Cavina Rispoli Luigi, Muratori Pietro ed il fantomatico Ferraresi Giancarlo, e in aggiunta i feriti ricoverati già a Sant’Eufemia Menzolini Romolo, Brini Adelmo, Pasciuti Iliano e Bergonzoni Guido.

Villa San Prospero, Faenza, in un'immagine dell'epoca.
Villa San Prospero, Faenza, in un’immagine dell’epoca.

 

Nino Bordini e Teodosio Toni furono invece compresi nel gruppo sistemato in altro reclusorio, che allo stato attuale delle ricerche non conosciamo. Con loro si vennero a trovare anche Bagni Alfonso, “Fonso”, Borghi Giovanni, “Gianni”, Guerra Mario, “Mao”, Ottonelli Attilio.Di loro non esiste alcuna registrazione scritta se non quella nel libro delle morti del comune di Bologna, che assegna loro come data di morte il 18 ottobre 1944 e come luogo Bologna.E’ possibile che essi siano stati fucilati al Poligono il 18-10-44 con due giorni di anticipo sugli altri e che il plotone d’esecuzione, a differenza di quello dei carcerati di San Giovanni in Monte, fosse costituito da militi fascisti. E’ possibile anche che la ragione della loro esecuzione sia stata diversa dagli altri : sempre rappresaglia, ma per i fatti che abbiamo riportato al §. 10.2, collegati alle notizie di cronaca date dal Carlino mercoledì 20 ottobre 1944, nell’articolo dal titolo ” Viltà dei fuorilegge.Militi della B.N.proditoriamente aggrediti”, già inserito in §.10.3., che  per comodità riportiamo qui sotto.

"Il Resto del Carlino" di mercoledì 20 ottobre 1944.
“Il Resto del Carlino” di mercoledì 20 ottobre 1944.

 

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(4)Sul modo in cui Laura Guazzaloca morì a Fossoli, in assenza di documentazione più precisa, esistono almeno tre versioni diverse : in N. Galassi, Partigiani nella Linea Gotica, Bologna, University Press, 1998, pp. 364-365 e in A. Albertazzi – L. Arbizzani – N. S. Onofri, Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese (1919-1945), vol. III, Dizionario biografico D-L, Bologna, Comune di Bologna – Istituto per la storia di Bologna, 1986, ad nomen risulta che Laura Guazzaloca fu fucilata a Fossoli; secondo Ferruccio Montevecchi, La battaglia di Purocielo, Imola, Galeati, 1987, p. 103, invece, Laura Guazzaloca sarebbe spirata a Fossoli di stenti.Un’ulteriore ipotesi, avanzata da R. Mira in http://www.centrostudifossoli.org/PDF/dbmira.pdf è che forse fu ferita nel bombardamento che il 20 novembre1944 colpì il campo di Fossoli, o fu colpita nel mitragliamento che lo precedette, in cui a detta dell’interprete del campo restarono ferite alcune donne internate, e morì poi in seguito alle ferite.

 

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