Come fu organizzato l’attentato

Il piano gappista dell’attentato a Facchini era stato progettato nelle due settimane precedenti, durante riunioni tenutesi all’interno di un’osteria, situata nei pressi di via Castiglione. Scartata la prima ipotesi di colpire Facchini in orario serale ad Anzola, dove era sfollato con la famiglia, perché  il comando del GAP ritenne che le condizioni non garantissero né l’esito dell’azione né la via di fuga, venne scelto come teatro dell’attentato la mensa del Guf, in pieno centro a Bologna, perché erano note le abitudini del federale.

L’azione, prevista per il 24, ma rimandata al 26 gennaio per la defezione di un giovane gappista, vide la partecipazione di sei/forse sette uomini: quattro appostati lungo via Zamboni ( due all’angolo di via Belmeloro ed altri due all’angolo tra Zamboni e via del Guasto ), per segnalare l’arrivo del commissario federale del PNF e aiutare gli attentatori a filarsela ; gli ultimi due (tre, secondo alcune testimonianze, comprendendo anche Ermanno Galeotti), Remigio Venturoli e Bruno Pasquali, nell’atrio della mensa dello studente, con il compito di colpire Facchini.

All’arrivo di Facchini, Venturoli e Pasquali si avviarono lungo le scale della mensa, si fecero da lui sorpassare, poi lo freddarono, sparando entrambi tre colpi, quindi cercarono di allontanarsi in bicicletta. Furono avvistati invece da Boninsegni, olimpionico di tiro con la pistola, che ferì non gravemente Pasquali alla spalla.

Come fu organizzato l’attentato
Bruno Pasquali
Come fu organizzato l’attentato
Remigio Venturoli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3.1.1. Il commando partigiano

Nella ricostruzione dell’attentato abbiamo seguito a grandi linee la testimonianza di Luigi Gaiani (1), contenuta nel vol. III di La Resistenza a Bologna di Luciano Bergonzini.

Secondo Gaiani, il peso di tutta l’operazione fu sostenuto dal 7° GAP, che operava nella città di Bologna. A causa della defezione di uno dei giovani, che determinò un ritardo di due giorni (vedi sopra,  §.3.1.), l’attentato fu  attuato dai partigiani di più antica militanza, quelli che fin dagli anni ’30 alimentavano le file dell’antifascismo. Nel gruppo rimase così un solo giovane : Sandrino, e in una riunione di emergenza, tenutasi nella solita osteria nel pomeriggio del giorno stesso -lunedì 24 gennaio 1944- inizialmente destinato all’attentato, si redistribuirono gli incarichi : i quattro, che all’esterno avrebbero dovuto vigilare e proteggere chi era direttamente impegnato nell’azione, furono assegnati in coppia alle due postazioni lungo via  Zamboni, nei pressi del GUF: all’angolo con via del Guasto Michele (Giordano Walter Busi) e Sandrino ; all’angolo con via Belmeloro Ruggero e Mazzini. Di tre, dunque, conosciamo ancor oggi per certo solo i nomi di battaglia, probabilmente perché ancora vivi quando il testo di Bergonzini fu diffuso.

In tutto furono sei i partecipanti stando a quel che sostiene Gaiani, compresi i due all’interno della sede del GUF, che furono incaricati di colpire il Federale : Pino (Bruno Pasquali) e Renato (Remigio Venturoli).

Sappiamo però che tra gli uomini appostati di guardia all’esterno, c’era sicuramente anche Umberto Rubbi, che lo dichiara esplicitamente in prima persona nella testimonianza resa nel vol. III di La Resistenza a Bologna di L. Bergonzini :

“Partecipai anche all’azione della casa dello studente che portò alla soppressione del segretario del fascio di Bologna : in quell’azione io ero all’esterno con altri, in via Zamboni, per proteggere i compagni che erano all’interno.”

Non sappiamo tuttavia se egli debba essere compreso nel gruppo dei sei elencati da Gaiani, citato tra loro con uno pseudonimo che non gli conosciamo (il suo, conosciuto, era “Sergio”) o se egli – come riteniamo più probabile-  fosse un uomo in più, da aggiungere a quelli nominati da Gaiani, il quale, da parte sua, avrebbe avuto invece solo un ruolo prettamente organizzativo.

Rubbi con la sua dichiarazione non ci aiuta a definire l’esatto numero degli attentatori, ma apre la questione alla possibilità che il commando fosse ben più numeroso di quel che attesta Luigi Gaiani.

3.1.2. Le testimonianze dei fascisti coinvolti

In questa direzione va anche la testimonianza di Walter Boninsegni, vice-segretario federale di Bologna e stretto collaboratore di Eugenio Facchini, che quel giorno si trovava con lui.

Scorcio della Casa dello studente, vista dalla attuale Piazza Verdi, dove avvenne l'attentato a Facchini. Foto dell'Archivio storico Unibo.
Scorcio della Casa dello studente, vista dalla attuale Piazza Verdi, dove avvenne l’attentato a Facchini. Foto dell’Archivio storico Unibo.

 

In una lettera che Walter Boninsegni scrisse ad Alberto Giovannini, giornalista di destra (2), pubblicata sul n. 3, anno III (settembre-novembre 1989) del bimestrale ACTA, periodico dell’Istituto Storico della Repubblica Sociale Italiana, egli affermava :

“Quel giorno –26 gennaio 1944– ero ospite di Facchini sull’auto della Federazione fascista repubblicana. Egli mi vide mentre camminavo a piedi e mi fece salire. Sarebbe andato alla Casa dello studente, dove era atteso, ed io avrei poi proseguito per casa mia. Giunto a destinazione, Facchini scese e l’autista rimise in moto verso Porta Zamboni, quando si sentirono gli spari. L’autista non obbedì al mio ordine di fermare subito e, solo con le mie minacce, si fermò davanti all’ingresso dell’Università. Io scesi e lui, impaurito com’era, riprese la corsa. Mi incamminai a piedi verso la Casa dello studente, quando vidi uscire dallo stabile i tre sparatori che avevano ancora le pistole in pugno. Mi videro e si lanciarono di corsa verso via Belmeloro, dove c’erano tre biciclette appoggiate al muro. Le inforcarono e scapparono per via Belmeloro. Feci in tempo a sparare ad uno dei tre, poi la pistola, una 6.35, si inceppò. I tre svoltarono per via San Sigismondo dove pare siano saliti su un furgoncino che li attendeva. Il mio colpo ferì uno degli sparatori, certo Bruno Pasquali, che ne ebbe per 40 giorni. Per questo ferimento mi condannarono, nel ’46, a tre anni e sei mesi”.

Pianta della zona universitaria : il tragitto della fuga degli attentatori in base alla testimonianza di Boninsegni.
Pianta della zona universitaria : il tragitto della fuga degli attentatori in base alla testimonianza di Boninsegni.

 

E’ dunque Walter Boninsegni che accredita la versione di tre (e non due) sparatori dentro al Guf e ci dice che dalle biciclette i tre sarebbero poi passati “su un furgoncino”, lasciando supporre che oltre alle vedette di guardia lungo via Zamboni, anche altri partigiani fossero impegnati quel giorno nell’attentato, come avvalorato da Rubbi.

Anche Franz Pagliani (3), delegato del P.N.F. per l’Emilia, in alcuni suoi appunti (4), racconta :

“Sull’uccisione di Facchini, avvenuta il 26 Gennaio 1944 (in via Zamboni, 25), si parlò molto a Bologna e non sempre serenamente. Cinque proiettili sparati da due pistole colpirono alla schiena il federale, secondo quanto io stesso potei costatare avendo, su richiesta del giudice, proceduto all’autopsia (sottolineatura nostra). Fui avvertito del delitto dall’amico, avv. Dallari. Facchini, colpito alla schiena, precipitato dallo scalone della Casa dello studente, si era fermato sotto la statua di Tullo Pacchioni, che lo guardava con i suoi occhi buoni e che lo aveva preceduto nel cielo degli Eroi”.

Franz Pagliani.
Franz Pagliani.www.destra.it
Franz Pagliani durante un corteo a Bologna con gli universitari di Medicina.
Franz Pagliani durante un corteo a Bologna con gli universitari della facoltà di Medicina.Archivio Storico Unibo.

 

 

 

 

 

 

 

 

La narrazione di Pagliani ci fa capire che solo due degli sparatori centrarono il federale di Bologna, che evidentemente spirò sul colpo, rotolando poi dalle scale fin nell’atrio.

E’ possibile perciò che nella testimonianza di Luigi Gaiani, da cui siamo partiti, si sia scelto di ricostruire i fatti citando solo i gappisti che ebbero un ruolo essenziale nell’azione, senza restituire le dimensioni reali del commando quel giorno impegnato in via Zamboni, che dovette essere certamente più numeroso a garanzia della riuscita dell’attentato, anche se noi oggi non siamo in grado di fornirne una quantificazione più precisa.

 

(1) Luigi Gaiani, arrestato a 18 anni per la sua adesione a “Giustizia e Libertà”, poi assegnato al confino, fu condannato dal Tribunale Speciale fascista una prima volta nel ‘31 a tre anni di carcere, quando ormai aveva aderito al partito comunista; scontò la pena, ma subì una seconda condanna a 18 anni nel ‘37, interrotta nel ’43, alla caduta del fascismo. Fu tra i primi ad avviare la Resistenza nel Bolognese dopo l’8 settembre (nome di battaglia “Aldo Comaschi”), fece parte del comitato militare del PCI assieme a Mario Peloni e a Vittorio Ghini, che ne fu il responsabile, e organizzò la lotta armata in alcune province dell’Emilia e della Toscana, come coordinatore dei gruppi di azione partigiana (GAP), ottenendo la Medaglia di bronzo al valor militare. Nel dopoguerra fu eletto Senatore della Repubblica nel 1958, riconfermato nel ‘63. Morì a Bologna nel 2003.

(2) Alberto Giovannini, tra il ’35 ed il ’38 giovanissimo direttore de L’assalto, organo delle federazione fascista bolognese, lavorò poi al Popolo d’Italia, quindi fu, fino al ’40, direttore di due fogli nella Somalia colonizzata dagli Italiani. Nella stagione della Repubblica Sociale Italiana diresse il settimanale L’ora. Nel ’46, anche con l’avvallo di Nenni, fondò la rivista Rosso e Nero dove si tentò di fare una sintesi tra le istanze sociali di certo fascismo ed il socialismo. La rivista ebbe contributi di Ignazio Silone, Cesare Rossi, Ugo Zatterin. Ma nel ’47 Giovannini, accusato di apologia di fascismo, fu inviato al domicilio coatto in Abruzzo e la rivista interruppe le pubblicazioni e venne chiusa in via definitiva nel ’48.In seguito Giovannini lavorò al settimanale Il Borghese e al quotidiano Il Tempo di Roma. Tra il ’57 ed ’67 diresse Roma per Achille Lauro, poi negli anni settanta fu alla guida de Il Giornale d’Italia. Dall’82 fu chiamato da Almirante al timone del Secolo d’Italia, che diresse fino alla morte, nel 1984.

(3) Franz Pagliani, oltre che importante esponente del fascismo, fu medico. Dapprima assistente del patologo bolognese Gherardo Forni, poi Ordinario di Patologia Chirurgica all’Università di Bologna, quindi direttore dell’Istituto omonimo fino al 25 luglio ’43, quando venne arrestato e condannato a tre anni per tentata ricostituzione del Partito Fascista. Liberato dai Tedeschi dopo l’8 settembre ’43, si impegnò nella riorganizzazione del Fascio locale e venne nominato da Pavolini Ispettore Regionale per l’Emilia. Su nomina di Mussolini fece parte del Consiglio giudicante del Tribunale Straordinario che doveva giudicare i componenti del Gran Consiglio del Fascismo che il 25 luglio ’43 avevano destituito Mussolini. Fu comandante della Brigata Mobile “Attilio Pappalardo”. A fine guerra fu catturato dai partigiani e condannato a morte, ma la condanna fu commutata in carcere duro dalla Corte d’Appello. Pagliani rimase in carcere a Perugia fino al 1950. Uscito di prigione, riprese la sua attività di chirurgo, aderì al Movimento Sociale Italiano e contribuì alla fondazione dell’Istituto Storico della R.S.I. Morì nel maggio 1986.

(4) Appunti riportati nel n. 3, anno III (settembre-novembre 1989) del bimestrale ACTA, periodico dell’Istituto Storico della Repubblica Sociale Italiana.

 

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