Romagnoli Giancarlo

Con i suoi 18 anni e mezzo, Giancarlo Romagnoli è stato uno dei più giovani tra coloro che affrontarono i plotoni d’esecuzione al Poligono di Tiro di Bologna tra il ’43 e il ’45 ed il primo a cadere tra i bolognesi.

Originario di Pianoro, dove era nato il 13 maggio 1924, figlio di Vito e Collettivista Piatesi, frequentò le scuole elementari fino alla 5ª classe e visse a Bologna, in via Broccaindosso 44, facendo di professione il meccanico. Fu chiamato alla leva e subito lasciato in congedo illimitato il 17 ottobre 1942, ma trascorso un periodo breve di pochi mesi, venne di nuovo richiamato alle armi per partecipare alla guerra, in base alla circ. 466 del giugno ’43. Fu destinato al 10° Reggimento dei Lancieri di Vittorio Emanuele II, un reparto di cavalleria che aveva sede a Bologna, nella caserma “Mameli”, allora come oggi situata nei pressi di Porta San Felice.

Il reggimento dei Lancieri, rientrato dalla Jugoslavia, aveva ceduto i propri cavalli dal novembre ’42 allo scopo di rafforzare le truppe italiane impegnate sul fronte greco-albanese, gravemente falcidiate, e si era progressivamente trasformato in reggimento corazzato di carristi, rifornito anche dei più recenti carri armati M 15. Ma con l’8 settembre 1943, nonostante la tenacia e il senso dell’onore del comandante del reggimento, il ten. col. Guido Raby, che aveva partecipato alla difesa di Roma ed aveva resistito in armi ben oltre la data dell’armistizio, era stato indotto a rassegnarsi alla smobilitazione, per effetto di una superiore  moral suasion, stante gli accordi presi da Roma anche coi Tedeschi, e costretto a dare l’ordine a tutti i suoi Lancieri di abbandonare il campo dal  12 settembre, deponendo lui stesso coi suoi ufficiali le armi a Castel S. Angelo il 17 settembre 1943.

La matricola militare di G. Romagnoli, che purtroppo contiene vuoti, imprecisioni, errori perfino (vedi data della morte indicata al ‘45).Archivio di Stato di Bologna.
La matricola militare di G. Romagnoli, che purtroppo contiene vuoti, imprecisioni, errori perfino (vedi data della morte indicata al ‘45).Archivio di Stato di Bologna.

 

Lasciato libero perchè smobilitato, dunque, Romagnoli raggiunse la famiglia, che nell’autunno ’43 sfollò a Vidiciatico di Lizzano in Belvedere (BO) per sottrarsi ai bombardamenti sempre più distruttivi effettuati dagli alleati su Bologna (vedi §.10.1. ). Fu perciò sull’Appennino Bolognese che egli prese contatto col gruppo di partigiani che si stava organizzando nei pressi di La Ca’, sopra Poggiolforato di Vidiciatico.

Errore di persona

Riteniamo invece frutto di un autentico svarione la testimonianza di Italo Scalambra, che abbiamo citato a §.2.3., che lo collocava in contatto con una base partigiana stabilita verso la fine di novembre 1943 sulle montagne modenesi, a Monteombraro, identificandolo con un aderente al Partito d’Azione, soprannominato “l’ingegnere”. Sosteneva Scalambra che :

«Poco tempo dopo quella vicenda ( l’insediamento e il successivo abbandono della base partigiana a La Ca’-n.d.a.), tentammo di nuovo di creare un’altra «base » a Monte Ombraro. Vi si riunirono circa 20 uomini comandati da Innocenzo Fergnani (“Tino”). In quella zona, avevamo l’appoggio di un giovane del partito d’azione che chiamavamo «l’ingegnere» e che ci forniva informazioni e anche mezzi materiali. Avemmo subito l’impressione che si trattava di un tipo coraggioso e generoso, antifascista convinto, e di lui ci fidavamo pienamente. I fascisti però si accorsero della nostra presenza e dei contatti con «l’ingegnere», che tentarono di catturare, sorprendendolo nella sua casa. Un nostro informatore ci mise al corrente di questo tentativo, cosicché decidemmo di proteggere la casa del giovane «azionista». Ci fu uno scontro a fuoco, a seguito del quale il capo dei fascisti della zona, presentatosi per la cattura dell’«ingegnere» a bordo di un camion, restò ucciso. Lo scontro era andato bene, ma la nostra situazione era diventata difficile. «L’ingegnere» abbandonò, dietro nostra insistenza, la propria casa; fu sistemato, insieme con la famiglia, in una località lontana. Successivamente, fu però arrestato e fucilato per rappresaglia a Bologna il 3 gennaio 1944: il suo nome era Giancarlo Romagnoli e con lui furono trucidati Lino Formili e Adriano Brunelli. Dopo quello scontro, che ci aveva messo allo scoperto, noi ritornammo a Bologna. Stavolta, però, portammo con noi quasi tutte le armi, ad eccezione di una mitragliatrice pesante «Breda», resa inservibile, e da quel momento i tentativi nella montagna bolognese cessarono e i giovani vennero diretti verso le Prealpi Venete, dove formarono in breve tempo prima la Brigata, poi la Divisione « Nannetti». Una parte andò al Falterona, nella costituenda 8ª Brigata Garibaldi e una parte restò a Bologna.» in L. Bergonzini, L. Arbizzani La Resistenza a Bologna, testimonianze e documenti. vol. III, Italo Scalambra pagg. 520-523.

Come abbiamo già anticipato, l’ingegnere era invece Zosimo Marinelli e la vicenda a cui si riferisce Scalambra l’abbiamo ricostruita nel §. 3. 8.  a lui dedicato, questo per rimarcare ancora una volta quanto sia precaria la ricostruzione storica fondata solo sui ricordi personali, che possono essere fallaci pur in buona fede e diventano affidabili se e quando confermati anche da altre fonti.

Romagnoli Giancarlo, in un’altra immagine conservata nel fondo fotografico ANPI presso l’Istituto Parri di Bologna.
Romagnoli Giancarlo, in un’altra immagine conservata nel fondo fotografico ANPI presso l’Istituto Parri di Bologna.

 

Il rastrellamento a Ca’ Berna.

Romagnoli fu invece arrestato assieme ad Adriano Brunelli, Lino Formili ed altri nel corso di un rastrellamento tedesco avvenuto nei pressi di Ca’ Berna, dove mesi più tardi i Tedeschi attueranno l’eccidio del 27 settembre 1944 contro la popolazione civile.

Il rastrellamento che portò alla cattura dei tre giovani probabilmente avvenne tra il 7 e l’8 dicembre 1943, come testimoniò la staffetta della base partigiana Cisiana Castelli, di cui abbiamo riproposto la versione al §. 2.4., che li vide già nelle mani dei militari germanici all’alba dell’8 dicembre 1943, caricati su dei camion, in procinto di essere trasferiti altrove. La ragazza ne rappresenta la sorte già segnata e ricorda soprattutto di Romagnoli la straziante preoccupazione filiale di avvisare i genitori perché potessero vederlo un’ultima volta.

La loro fine, che apparve imminente alla ragazza, in realtà tardò quasi un mese a compiersi. Trattenuti nelle mani dei tedeschi forse a Porretta, forse all’Abetone (le testimonianze su questo punto discordano –vedi §.2.4 – ) in un presidio germanico dove furono interrogati, poi trasferiti a Bologna, giunsero al carcere di San Giovanni in Monte il 18 dicembre, data nella quale furono internati insieme, Romagnoli col numero di matricola 8817, anche lui per disposizioni del comando tedesco SS, tenuto a disposizione, per un reato che nelle annotazioni sull’apposito spazio nel registro risulta sconosciuto alle autorità italiane, analogamente a Formili e Brunelli (“Ignorasi”, vedi §.2.6 )

Il 3 gennaio 1944 anche lui venne prelevato da San Giovanni in Monte ad opera della Gendarmeria da campo tedesca, per ordine del Tribunale militare tedesco 1012, fu condotto al Poligono assieme ai suoi due compagni e fucilato.

Lo stesso giorno i manifesti affissi sui muri di Bologna avvisarono la cittadinanza delle due esecuzioni già avvenute, quella del 30 dicembre di cui furono vittime Emiliani e Donatini, e la loro, di cui era scritto con evidenza che la ragione della condanna a morte comminata dal Tribunale militare tedesco (l’autorità occupante, dunque, a differenza della sentenza che aveva portato alla fucilazione dei due faentini) era stata determinata dall’aver preso parte a gruppi di lotta partigiana e aver detenuto armi abusivamente.

Nel dopoguerra a Romagnoli fu riconosciuto il titolo di ‘partigiano’ dalla commissione regionale a ciò preposta con decorrenza dall’1 ottobre 1943, fino al 3 gennaio 1944.

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