Scheda sintetica :

Giordano Walter Busi, nome di battaglia “Michele”, nacque a Bologna il 22 luglio 1907 da Enrico e Grossi Bianca. Frequentò le elementari fino alla terza classe, poi fece il muratore.

Nel 1925, a 18 anni, aderì alla Federazione Giovanile Comunista. Arrestato e schedato nel 1930 per attività comuniste, fu condannato per tre volte al confino: una prima volta per cinque anni nel febbraio 1930 e destinato all’isola di Ponza. Durante questo confino subì ulteriori provvedimenti punitivi: 1) l’8 dicembre 1930 fu condannato a tre mesi per contravvenzione agli obblighi di confino e rinchiuso nel carcere di Poggioreale (NA), dove rimase fino al 13 marzo 1931; 2) il 13 agosto fu condannato a tre mesi e quindici giorni per lo stesso reato; assolto invece il 18 novembre ’31 e successivamente il 15 novembre 1934 da analoghe accuse. Sposatosi nel luglio del ’33 con una giovane ponzese, Vitiello Silveria, fu trasferito all’isola di Ventotene e rinchiuso nel carcere di S. Stefano. Il 26 maggio del ’34 nacque il figlio Spartaco. Il 1° aprile del 1935, scontata per intero la condanna al confino, tornò a Bologna.

Il 30 settembre ’36 arrestato ancora una volta, fu condannato al secondo confino di polizia il 16 novembre ’36 e destinato per altri 5 anni a Ventotene. Il 15 aprile del ’38 dal confino di Ventotene fu trasferito nel carcere di Castelfranco Emilia ed il 25 novembre ’38 fu condannato dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato ad altri cinque anni di reclusione. Dimesso dal carcere di Castelfranco Emilia, il 15 gennaio ’41 fece ritorno alla colonia confinaria di Ventotene.

Il 29 settembre’41, in occasione dell’amnistia, non venne liberato come altri, ma il 6 ottobre ’41 per la terza volta gli fu assegnata una condanna al confino di altri tre anni. A seguito della caduta di Mussolini nel luglio ’43, fu liberato e tornò a Bologna il 26 agosto. Da quel momento riprese la lotta antifascista nelle file della Resistenza, militando nella 7ª gap di Bologna, di cui fu uno dei fondatori e primi combattenti. Prese parte all’attentato al federale di Bologna Eugenio Facchini il 27 gennaio 1944. Comandante partigiano e commissario politico, fu tra gli organizzatori degli scioperi operai del 1°marzo e della manifestazione per il 1° maggio ’44 a Bologna. Venne infine arrestato con Bruno Pasquali e Antenore Piva durante un rastrellamento tedesco in via Emilia Levante il 14 novembre 1944 ed internato a San Giovanni in Monte. Risulta fucilato il 18 novembre successivo.

Il santino del funerale di Giordano Walter Busi, in originale un fronte retro, squadernato. Fondo Fotografico ANPI, Istituto Parri, Bologna.
Il santino del funerale di Giordano Walter Busi, in originale un fronte retro, squadernato. Fondo Fotografico ANPI, Istituto Parri, Bologna.

 

Giordano Walter Busi, “Michele”

Colpito al sommo del petto dal piombo nazifascista, col solo conforto dell’Idea, per la quale aveva sacrificato (…), orgogliosamente cadeva il 18 novembre 1944 ….ecc…”

Nel testo del santino distribuito al funerale, che invitiamo a leggere per esteso, colpiscono alcune espressioni-chiave, che permettono di cogliere la fierezza familiare per la morte eroica di Giordano Walter Busi, da lui affrontata a viso aperto e messa in conto da sempre ed accettata al pari del confino e del carcere, come il prezzo inevitabile della propria fede politica, equiparata per dedizione ed amore al figlio Spartaco. Al di là della retorica resistenziale che permea le parole, quel che emerge ripetutamente dallo stampato è l’orgoglio comunista che consentì a lui e poi ai suoi familiari di guardare comunque al futuro con la speranza che altri avrebbero continuato sulla via tracciata, traendo dal suo esempio la “forza per i futuri cimenti”, in una logica non più individuale ma collettiva del proprio compito nella storia.

Abbiamo voluto iniziare così questo nostro ritratto di “Michele” Giordano Walter Busi, rovesciando la cronologia e l’ordine logico di qualsiasi biografia, perché mai come per lui nella sua fine si specchia tutta la vita.

Comunista e partigiano, un irriducibile.

Quando venne fucilato al Poligono di tiro di Bologna, Giordano Walter Busi i suoi 37 anni li aveva compiuti solo da quattro mesi e poco meno della metà li aveva passati al confino, tra Ponza e Ventotene, e in galera: in parte a San Giovanni in Monte, a Bologna, in parte a Castelfranco Emilia, in parte ancora a Civitavecchia e a Napoli Poggioreale. Il motivo, sempre e solo uno: la sua scelta di essere e rimanere comunista nonostante il fascismo, nonostante la repressione, la censura, le condanne reiterate, nonostante tutto.

I rapporti di polizia che lo riguardano ripetono tutti lo stesso refrain : massima sorveglianza per un elemento che non smette di essere comunista e di accompagnarsi ai soggetti ideologicamente più pericolosi, che perciò va di volta in volta riportato in carcere, isolato e condannato ancora e ancora al confino perché irriducibile. Tanto irriducibile da rimetterci anche la vita, alla fine.

Quante volte abbiamo sentito dire dai nostri vecchi: sotto il fascismo bisognava avere la tessera, altrimenti non si campava…sotto il fascismo erano tutti fascisti perché non si poteva fare altro. Ecco, Giordano Walter Busi è la dimostrazione che si poteva fare altro, ma a che prezzo !

Nato il 22 luglio 1907 da Enrico e Grossi Bianca, nella frazione Bertalia al n°. 154 di Bologna, in una famiglia di estrazione popolare, in cui oltre a lui c’erano altri quattro fratelli (Gaetano, Cordelia, Aurora, Ancilla), scolarizzato fino alla 3a elementare, il minimo necessario per imparare a leggere e scrivere, poi  muratore, in famiglia aveva avuto il primo orientamento politico, ma dai 18 anni la sua scelta si era fatta personale e attiva ed era entrato a far parte della Federazione Giovanile Comunista nel 1925. Soldato nel 49° Fanteria in Mantova, dove dalla locale questura era già stato segnalato come comunista, veniva sottoposto a fermo di polizia la mattina del 31 luglio ’29 a Bologna poi il 2 gennaio 1930 arrestato, schedato e condotto alle locali carceri di San

Le foto segnaletiche di Giordano Walter Busi, nel suo fascicolo presso l’Archivio di Stato di Bologna.
Le foto segnaletiche di Giordano Walter Busi, nel suo fascicolo presso l’Archivio di Stato di Bologna.

Giovanni in Monte, dove il 19 febbraio 1930 gli veniva comunicato da un sottoufficiale di P.S. della Squadra Politica della Questura di Bologna, che a suo carico sarebbe stata presentata la proposta di assegnazione al confino e lo si preavvisava che aveva tempo fino al 23 del mese per presentare ricorso scritto avverso al provvedimento, presso la locale Commissione Provinciale. Era accusato di essere pericoloso per l’ordine nazionale dello Stato in quanto militante del Partito Comunista, in contatto con altri comunisti (Mazzetti Marino (1), Negrini Paolo (2), Marmocchi Giuseppe (3)), impegnato insieme a loro nella riorganizzazione del movimento giovanile del partito in provincia di Bologna. Effetti di questa attività, di cui si imputava la responsabilità al Busi in concorso con gli altri, erano stati la distribuzione in occasione della giornata rossa del 1° agosto 1929 di numerose copie di un manifestino comunista nella notte tra il 30 e il 31 luglio in via Emilia, tra il Dazio e S. Viola, e l’affissione di francobolli comunisti sulle pareti di alcuni orinatoi pubblici della città. Lo stesso verbale sottolineava come all’arresto di Busi e Negrini fosse terminata anche la distribuzione degli stampati.

A Busi, e agli altri indicati sopra, veniva imputata inoltre l’intensificazione nella distribuzione di manifestini del partito comunista e di stampa clandestina, che era stata registrata dalle autorità a partire dal dicembre ’29 in città, che aveva determinato poi il suo arresto ad inizio gennaio ‘30.

Il primo confino di polizia a Ponza.

In tre, Marmocchi Negrini e Busi (4),  furono condannati al confino per cinque anni il 25 febbraio 1930 e Busi fu destinato all’isola di Ponza, allora compresa nella provincia di fondazione e denominazione fascista “Littoria”, poi divenuta l’odierna Latina, che egli raggiunse l’8 aprile 1930 accompagnato dagli agenti di P.S.. (5)

Otto mesi dopo, l’8 dicembre 1930, fu arrestato e denunciato per contravvenzione agli obblighi di confino e per il reato previsto dall’art. 24 o 247 (la lettura sul documento è incerta) del Codice Penale. Venne condannato a mesi 3 per il solo reato di contravvenzione agli obblighi di confino, rinchiuso a Poggioreale, dove rimase fino al 13 marzo 1931, quando venne tradotto nuovamente a Ponza, dopo aver espiata la pena.

Il 1° giugno 1931 fu ricoverato d’urgenza nel locale ospedale degli Incurabili a richiesta dei sanitari di Ponza, per accertamenti; da lì venne dimesso il 29 giugno e riaccompagnato a Ponza il 30. Il 2 agosto fu denunciato e arrestato alla Reale Pretura di Ponza per contravvenzione agli obblighi di confino, il 13 agosto fu condannato a mesi 3  e gg. 15 di arresto per il reato imputatogli. Il 18 novembre dal locale tribunale fu assolto per insufficienza di prove.

Un matrimonio al confino.

Nell’isola non gli fu assegnato alcun incarico di lavoro – perlomeno ufficialmente-, in compenso si innamorò di una giovane nativa del luogo, Vitiello Silveria, chiamata familiarmente Silvia, nata a Ponza il 29 maggio 1911 da Biagio e Misuraca Rosalia, con la quale decise di convolare a nozze nel luglio del ’33, quando per Busi si aprì una breve tregua nelle vessazioni costrittive del confino. Nel suo fascicolo, depositato presso l’Archivio di Stato di Bologna, sono conservate ancora le due domande di pugno di Silveria e Giordano, rispettivamente la prima inviata da Bologna il 5 luglio ’33 con la quale la giovane, in quel momento ospite presso l‘abitazione dei genitori di lui in via Bertalia 154, chiede al Ministro degli Interni che venga concessa una licenza matrimoniale per il giovane allo scopo di celebrare le nozze; la seconda spedita da Bologna alla fine di luglio 1933 dallo stesso Giordano Busi al Ministero degli Interni per ottenere una proroga della licenza matrimoniale, accordatagli precedentemente e in scadenza il 23 luglio, in considerazione del fatto che non era stato possibile celebrare il matrimonio prima di sabato 22 luglio. “Michele” era stato infatti accompagnato a Bologna il 12 luglio ’33 per fruire della concessione di 10 gg di licenza  matrimoniale, che gli furono poi prorogati fino al 31 luglio, quando fu nuovamente riportato sotto scorta al confino, non più a Ponza, ma a Ventotene.

La domanda di Silveria. Archivio di Stato di Bologna.
La domanda di Silveria. Archivio di Stato di Bologna.

 

Nel frattempo infatti, probabilmente per allontanarlo dalla presenza di Silveria a Ponza, era stato deciso il suo trasferimento a Ventotene, effettuato già in data 11 maggio ’33, dove l’isolamento divenne ancora più accentuato perchè l’internamento era previsto in una struttura penitenziaria, il carcere di Santo Stefano, costruito nel 1795 in epoca borbonica sull’isola pontina omonima, famoso per le condizioni di durezza e severità di trattamento dei condannati.

La domanda di Giordano. Archivio di Stato di Bologna.
La domanda di Giordano. Archivio di Stato di Bologna.

 

Di lì a breve, il 26 maggio del ’34, nacque il figlio, che fu chiamato Spartaco, Spartaco Busi, un nome che la dice lunga sulle convinzioni del padre, che lo “amava quanto la sua Fede “.

Il-carcere-di-Santo-Stefano-nellisola-omonima.
Il-carcere-di-Santo-Stefano-nell’isola-omonima.-Qui-fu-trasferito-Walter-Busi, due mesi prima del suo matrimonio.

 

Ancora una volta, il 19 ottobre 1934 venne denunciato in stato d’arresto alla locale Pretura per oltraggio ad agenti della Forza Pubblica e contravvenzione agli obblighi di confino, ma il 15 novembre fu assolto dalla Pretura di Napoli per insufficienza di prove.

Il 1° aprile 1935, finalmente terminato di espiare per intero il periodo di confino, venne accompagnato da due agenti a Bologna e rimesso in libertà. Dopo aver dichiarato di prendere dimora a Bologna, in frazione Bertalia al 154, dove risiedevano i suoi, riprese la sua vita, ma nei suoi confronti venne disposta da parte della locale Questura una vigilanza costante.

Per quasi un anno e mezzo Busi non dette luogo a rilievi, continuando ad essere sorvegliato dalle forze dell’ordine, finché il 30 settembre ’36 venne ancora una volta tratto in arresto, perché risultò comprovata la sua attività comunista e la sua partecipazione a convegni politici in contatto con compagni di fede. In particolare fu accusato di raccogliere sottoscrizioni per i sovversivi spagnoli, impegnati nella guerra civile.

Il secondo confino di polizia a Ventotene, poi il carcere

Denunciato alla Commissione Provinciale, fu assegnato per la seconda volta al confino di polizia  con ordinanza 16 novembre ’36 e destinato per altri 5 anni a Ventotene, ove venne di lì a breve tradotto,  giungendovi l’8 dicembre 1936.

Il 15 aprile del ’38, dal confino di Ventotene fu trasferito nel carcere di  Castelfranco Emilia (MO), a disposizione dell’Ispettore generale di P. S., Comm. D’Andrea, poiché nel corso di una operazione di polizia erano emersi i suoi contatti con Marocchi Armando (6), (oltre a Masetti Federico e Collina Walter) con scambio di stampa sovversiva, e coinvolgimento in una raccolta di sottoscrizioni per i garibaldini in Spagna a combattere tra la Brigate Internazionali.  A seguito di questo il 25 novembre ’38 il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato lo condannò ad altri cinque anni  di reclusione ed alla libertà vigilata, oltre che al pagamento delle spese processuali.

Fu dimesso dal carcere di Castelfranco Emilia il 15 gennaio ’41, per far ritorno alla colonia confinaria di Ventotene, dove le annotazione lo segnalarono di nuovo “riaffiancato agli elementi più pericolosi”. Ancora una volta, per la sua inalterata fede comunista il 29 settembre ’41, in occasione dell’amnistia, non venne liberato come altri, ma con ordinanza della Comm. Provinciale di Littoria (oggi Latina) il 6 ottobre ’41 fu riassegnato al confino per altri tre anni.

Solo dopo la caduta di Mussolini, il 25 luglio del ’43, e l’avvicinamento dell’Italia agli alleati, in un clima politico diverso e in virtù di nuove disposizioni, venne prosciolto dal confino e lo si lasciò libero di tornare a Bologna, dove il 26 agosto ’43 prese dimora in via del Pane 5, sempre in zona Bertalia, essendo comunque mantenute dalla Questura severe disposizioni di attenta vigilanza nei suoi confronti.

Nella Resistenza Bolognese

E’ attraverso le testimonianze sparse di altri antifascisti, contenute nei volumi de La Resistenza a Bologna, op. cit., che è stato possibile delineare seppure sommariamente l’attività e il ruolo svolti da Giordano Walter Busi durante la lotta di Resistenza.

Alla fine dell’agosto 1943, quando lui e diversi altri comunisti del Bolognese furono liberati, nonostante l’estrema povertà di mezzi, essi riuscirono a formare fin dall’inizio di ottobre un primo reparto armato sufficientemente organizzato, da cui poi nascerà la 7ª Gap cittadina (7). Tra i dirigenti politici già operativi nel gruppo ci furono Umberto e Vittorio Ghini, Mario Peloni, Giuseppe Alberganti, il mitico “Cristallo”, Gianni Masi, Luigi Gaiani, Walter Nerozzi, Sonilio Parisini, oltre a pochi altri, e tra i primi a dare vita al nucleo combattente originario assieme a Walter Busi, si ritrovarono Remigio Venturoli, Bruno Pasquali, Vittorio Gombi, Libero Baldi, Modesto Benfenati, Bruno Gualandi, Ermanno Galeotti, Libero Bergonzoni, Lino Michelini, tutti giovani operai in maggioranza di lunga militanza comunista, e lo studente Carlo Jussi.

Busi (8) e Addante Proni, Jim (Giorgio Pezzoli (9)) e Dante Palchetti fin dal settembre del ’43 avevano fissato una prima base in una botola dell’osteria “dal Cech” all’angolo di via Procaccini (in zona Corticella).

Nell’inverno del ’43 Busi si stabilì poi in una stanzetta al primo piano in via del Riccio 7 (10), una laterale di via Barberia, condividendola con altri tre: Berto, il giornalaio di piazza Malpighi, Gianni Zucchini e un altro antifascista, soprannominato il Lungo, non meglio identificato. Applicando stringenti disposizioni di sicurezza, in quel luogo si tenevano i contatti e gli incontri, si distribuivano direttive, documenti e materiale da diffondere.

Walter Busi, con gli altri, nei primi mesi di attività antifascista a Bologna, oltre al reclutamento e all’organizzazione fu in prima linea anche nella lotta armata, dalle azioni estemporanee per rifornirsi di armi e munizioni, fino alla preparazione ed attuazione di azioni vere e proprie (sopralluoghi, reperimento e rifornimento di materiale bellico, partecipazione a commando per sabotaggi ed attentati, ecc). Racconta Gino Zecchini, operaio SASIB, fabbrica allora situata di fronte all’Ippodromo, fuori Galliera:

“Quando c’erano gli allarmi aerei noi operai uscivamo dalla fabbrica e ci recavamo in un punto fisso, nei pressi di un macero, dove, sotto i sassi, c’era un deposito di armi. Poi andavamo nella strada e, approfittando del caos e della paura, disarmavamo i militi che fuggivano verso i ripari. Ricordo che una volta feci un’azione del genere con Michele (Walter Busi); nell’avviarci al macero fummo superati da un tedesco tutto carico d’armi. Noi eravamo disarmati. Fermai il tedesco e gli offrii una sigaretta ed aveva appena acceso che vidi l’elmetto schiacciarsi sopra il naso e gli occhi non si vedevano più, poi sentii un grosso botto sull’elmetto e il soldato rotolò a terra insieme al grosso sasso di macero con cui Michele l’aveva colpito. Quel soldato era un piccolo arsenale e facemmo un buon bottino di armi: una « maschinenpistole », una busta con 5 caricatori, due bombe a mano col manico e una rivoltella « P 38 ». Poi andai dal contadino e gli dissi che vicino al macero c’era un tedesco morto e allora vennero a seppellirlo.”(11)

Nel gennaio 1944 Busi partecipa all’ideazione ed alla realizzazione dell’attentato al federale di Bologna, Eugenio Facchini, attuato il 26 gennaio 1944 presso la mensa dell’Università, in via Zamboni a Bologna. E’ Giordano Walter Busi il “Michele” che prende parte al commando partigiano ed ha il compito di presidiare con “Sandrino” la zona universitaria in prossimità del GUF, tra via del Guasto e via Zamboni, per proteggere l’azione e la fuga dei compagni, come raccontò Luigi Gaiani (12), già suo compagno di prigionia nel carcere di Castelfranco Emilia. Per questa importante azione, rimandiamo al cap. 3 di questa ricerca, e in particolare al §. 3.1.1.

Lo sciopero del 1° marzo 1944

Tra le iniziative di organizzazione politica più rilevanti di cui si occupò Giordano Walter Busi vi fu innanzitutto la preparazione dello sciopero del 1° marzo ’44 a Bologna, che -nonostante il malcontento e lo spirito di ribellione ormai dilaganti- “non fu un fatto spontaneo”(13).

Come era già accaduto nelle fabbriche torinesi nel corso del 1943, i dirigenti nazionali del movimento di liberazione si proposero di realizzare, stavolta a livello nazionale, uno sciopero di protesta contro l’occupazione tedesca e la Repubblica di Salò, fissandolo per il 1° marzo 1944. Furono soprattutto Alberganti e Monterumici (14) ad insistere perché allo sciopero aderisse anche Bologna, benché i quadri dell’antifascismo e del partito comunista locali non si sentissero ancora preparati, convinti che una cosa fosse mobilitare Torino-Milano-Genova, un’altra Bologna. Scarabelli, Busi, Minella e pochi altri, invece, si impegnarono a convincere gli esponenti comunisti e degli altri partiti nei singoli luoghi di lavoro e nelle fabbriche in cui avevano i collegamenti, rendendolo possibile nei fatti. Infine, negli incontri che prepararono lo sciopero generale, fu essenziale il contributo di Sante Vincenzi, incaricato del coordinamento dei vari settori di lotta, ferrovieri, tranvieri, operai metalmeccanici, ecc.

Giordano W. Busi e Giorgio Scarabelli, in particolare, tennero diverse riunioni in alcune case semidistrutte dai bombardamenti in via Saliceto e nella abitazione in via Malgrado del tranviere Rinaldo Marabini (15), per preparare l’adesione allo sciopero dei tranvieri, coinvolgendo anche Dovilio Chiarini e Addante Proni. Ai tramvieri infatti era affidato un ruolo essenziale nell’attuazione dell’iniziativa: poiché era fondamentale che tutti i lavoratori facessero sciopero, era necessario che prima di tutto scioperassero i tranvieri, in modo da far venire a mancare il principale mezzo di comunicazione che consentiva ai lavoratori di giungere in fabbrica.

Nelle riunioni iniziali fu preparato un documento scritto per diffondere la piattaforma politico-rivendicativa dello sciopero, a cui Walter Busi dette un contributo essenziale. Articolato in 13 o 14 punti, il documento conteneva richieste sia sindacali che politiche: si domandava l’aumento degli alimenti, dei salari e del cottimo, il miglioramento di alcuni aspetti normativi del lavoro, ma si rivendicavano con forza anche la garanzia che i lavoratori non sarebbero stati deportati in Germania, la fine dell’occupazione e la fine della guerra.

In prossimità della data fissata per lo sciopero, se ne definirono anche i dettagli operativi: fu deciso che lo sciopero sarebbe stato “protetto” da squadre attive di gappisti armati, cui fu affidato il compito di mettere fuori uso temporaneamente gli scambi. L’Azienda tranviaria di Bologna, allora tutta su rotaie, aveva due depositi: quello principale alla Zucca, in via Saliceto, e quello secondario nel piazzale di fronte allo Stadio “Littoriale “. Tutti e due erano dotati di scambi per permettere l’entrata e l’uscita delle vetture. Si decise che prima di tutto, poco prima dell’alba del 1° marzo, si dovessero rendere inservibili per alcune ore gli scambi, allo scopo di bloccare del tutto la circolazione dei mezzi. La sera prima dello sciopero fu indetta una riunione, affollata e movimentata, che si protrasse per tutta la notte, a cui presenziarono Busi e Scarabelli, tenutasi in una laterale di via Saliceto. I partecipanti, verso le cinque del mattino, poterono sentire con le proprie orecchie i boati delle esplosioni agli scambi della Zucca che preparavano lo sciopero. Le esplosioni e l’azione dei tranvieri, che bloccò la circolazione, incoraggiarono l’adesione operaia allo sciopero, mobilitando la Ducati, la Sabiem-Parenti, la Sasib, l’ACMA; gran parte della “Giordani”e altre fabbriche minori. I tedeschi intervennero in alcune fabbriche, le più grandi ed essenziali, con minacce, ma anche promesse di concessioni. Fu la consapevolezza operaia a uscire rafforzata dallo sciopero, la convinzione nascente che l’opposizione e la lotta antifascista poteva dare dei frutti se la volontà fosse stata unitaria e si fosse entrati in azione. La reazione nazifascista tuttavia non si fece attendere e molti furono vittime della repressione, tanti i tranvieri deportati nel Reich, tra cui lo stesso Scarabelli, catturato nell’aprile del ‘44 e spedito a Mauthausen (Austria), da cui fece ritorno nell’aprile del ‘45.

Il ruolo di Busi durante la preparazione di questo sciopero appare articolato ed essenziale: avvicina e stabilisce i contatti, selezionando gli uomini destinati a trascinare ed organizzare gli altri nelle varie realtà produttive bolognesi, dà suggerimenti e consigli, facilita i compiti e addestra i neofiti sul modo migliore di parlare e convincere gli operai alla lotta:

“(…) era presente Walter Busi, che, alla fine della riunione, quando furono fatte le presentazioni, fu qualificato come commissario politico. Fu lui che parlò per primo e con non poca sorpresa constatai che sul mio conto sapeva già molte cose. Sapeva che venivo da Molinella, che mio padre era sempre stato un sindacalista, collaboratore di Massarenti, che la nostra famiglia assieme ad altre 250 famiglie di Molinella, era stata deportata e che infine avevamo favorito i soldati a lasciare le caserme. Mi chiese quale consistenza aveva la nostra organizzazione e se avevamo contatti con altri gruppi clandestini. Infine informò tutti che si stavano formando dei comitati unitari e che questi organi si assumevano il compito di organizzare e dirigere la lotta di liberazione contro i nazifascisti; in conclusione ci chiese di partecipare alla lotta.”(16).

Walter aveva contatti quasi settimanali con noi e con i suoi suggerimenti tutto sembrò semplice e facile (…)”(16 bis)

Io non avevo alcuna esperienza di scioperi e ricordo di avere parlato della cosa con Walter Busi e lui mi istruì anche sul modo di parlare ai lavoratori (…)”(17)

Non fu l’unico a spendersi per le iniziative ricordate, ma fu uno dei militanti fondamentali per garantirne la riuscita. Di fatto la vecchia generazione di sovversivi, con esperienza di anni di antifascismo alle spalle, di galera, di clandestinità si trovò a fare in pochi mesi opera di formazione politico-militare ad una nuova generazione di antifascisti, giovanissimi, ancora in gran parte digiuni di strumenti e metodi di lotta, ma in maggioranza ancora non schedati dalla Questura, quindi meno facilmente individuabili.

La manifestazione del 1° maggio ’44 a Bologna

E’ ancora Busi, assieme a Sante Vincenzi, Enzo Zoni (Vito), Irnerio Minella, Fernando Zarri (Fausto) e Bruno Corticelli a organizzare una delle due manifestazioni con cui fu celebrato il 1° maggio del ’44 in città, al Deposito Locomotive di Bologna Centrale (l’altra manifestazione si tenne ad Anzola Emilia). In casa di Irnerio Minella, in via Tanari 42, si tenne una riunione di partito dove, data l’impossibilità di dichiarare apertamente lo sciopero, si progettò uno stratagemma per preparare la manifestazione, che riuscì pienamente. Un gruppo di compagni, preparati prima, trascinati dalle grida di Enzo Zoni, all’ora concordata cominciò ad urlare “Allarme aereo! Allarme aereo!”, seguiti da tutti gli altri, consapevoli e no dell’inganno. Furono inforcate le biciclette e una massa di ferrovieri cominciò a sfilare in fretta davanti agli uffici, dove si trovavano i comandi delle sirene. L’addetto all’allarme, sorpreso, si slanciò sui comandi e cominciò ad azionarli ad intermittenza. Bruno Corticelli (18) che raccontò i fatti, concluse la testimonianza ricordando che poi gli operai si ritrovarono sull’argine del fiume Reno, alle case Proni del Trebbo, per festeggiare il 1° maggio, intonare l’”Internazionale” e discutere di politica. Lì fecero passare le ore, dato che il cessato allarme non arrivò mai, anche perché nessuno aveva mai dato realmente l’allarme.

La preparazione dell’insurrezione

Quando, nel corso del mese di settembre ’44 iniziò ad operare anche a Bologna il Comando Piazza (19) i partigiani che operavano in città furono inquadrati in settori, in base alle quattro zone in cui fu suddivisa Bologna (20).

A Walter Busi fu affidato il 1° settore, che comprendeva una prima zona di Bologna, tra via San Felice e via Indipendenza; a Renato Capelli fu affidato il 2° settore, tra via Indipendenza e via Mazzini, a Bertrando Pancaldi il 3° settore, tra via Mazzini e via D’Azeglio, con commissario politico Diego Orlandi e consulente militare un tenente colonnello dell’aeronautica, mentre il 4° settore,  tra via D’Azeglio e via Saffi, fu assegnato a Bruno Tosarelli, con commissario politico Enzo Cinelli.” La divisione in zone già prefigurava un piano militare di gestione del territorio, in quanto prevedeva che la via principale che divideva le zone venisse difesa da un solo settore; la linea di demarcazione passava alla sinistra della via principale, in modo da permettere alla zona di avere tutti gli appoggi naturali possibili sia per difendersi sia per attaccare”.

Era stato previsto dal CUMER che ai primi di ottobre ’44 le Brigate di montagna e quelle di pianura avrebbero dovuto confluire in città, per entrare alle dipendenze delle zone a loro assegnate (21), mentre la 7ª Gap avrebbe continuato ad operare all’interno della città come formazione autonoma. La zona affidata a Busi era di particolare riguardo, essendo compresa al suo interno tutta l’area del Macello e le rovine dell’ex-Ospedale Maggiore, dove trovarono acquartieramento la maggior parte dei partigiani confluiti in città dall’hinterland.

Tuttavia l’affidamento dei settori ai vari comandanti già dal 5 ottobre dovette subire delle variazioni d’emergenza, perché quel giorno Bruno Tosarelli, mentre attraversava il centro della città, di ritorno da una riunione organizzativa coi suoi comandanti, in Via San Vitale fu riconosciuto, circondato e barbaramente trucidato sul posto da militi fascisti.

Generalmente si trattò di redistribuire gli incarichi sulle stesse persone, mentre si prendeva atto man mano che gli avvenimenti attesi (l’insurrezione della città, l’arrivo degli alleati e la liberazione di Bologna) non sarebbero avvenuti nei tempi previsti, cioè durante il mese di ottobre. Abbiamo già richiamato più volte le difficoltà organizzative e di sicurezza che la presenza di tanti uomini (circa 350) nascosti nel cuore di una città di ridotte dimensioni come Bologna determinò nelle file della Resistenza, ma inizialmente ci fu la convinzione che l’attesa per l’insurrezione fosse breve. Non fu così. Nello stillicidio di speranze e disinganni, notizie e smentite, il contrasto alla lotta partigiana, la repressione e l’oppressione nazifascista si fecero più dure e senza scrupoli e tanti partigiani e comandanti di brigate furono individuati e catturati o caddero per mano nazifascista. Il 13 novembre ’44, poi il proclama radiofonico del gen. Alexander (22) tolse definitivamente a tutti le illusioni residue ed aumentò per i partigiani i rischi connessi alla permanenza in città, perciò il Comando Piazza ridefìnì gli incarichi, modificando i piani, che da insurrezionali, divennero difensivi, preparando la smobilitazione dalla città di tutte le brigate che vi erano radunate.

Busi al 3° settore

A partire dal mese di settembre sappiamo (23) che la zona operativa di Busi fu fissata nella parte est della città, in un recapito nei pressi del Pontevecchio, nel quartiere Mazzini. Lì svolse l’incarico di comandante del 3° raggruppamento città e provincia. Noi non sappiamo se gli fu cambiato settore, o se cumulò più di un incarico, ma si trovava proprio in questa zona est della città in pieno autunno, dopo la battaglia di Porta Lame ed alla vigilia di quella della Bolognina, quando venne rastrellato dai tedeschi il 14 novembre, mentre si stava recando nella base di via Emilia Levante 68, assieme a Bruno Pasquali, Antenore Piva ed altri, come abbiamo già raccontato nel §.11.4.  seguendo la testimonianza molto articolata di Paola Rocca (24), che qui sotto riportiamo solo con qualche omissione:

Io abitavo al n. 48 di via Emilia Levante; (…) in un appartamento del n. 68 (…) nel novembre 1944 venne ad abitare un giovane che si faceva chiamare Guerrino, ma era Bruno Pasquali. Più tardi venne un altro giovane, Walter Busi, detto Michele. Questo appartamento era frequentato da un partigiano tedesco, il quale aveva combattuto a porta Lame, e da altre persone, tra le quali vi era Antenore Piva, che abitava al n. 66 e poteva accedere all’appartamento senza passare dal cortile, in quanto l’appartamento stesso aveva due entrate. Piva aveva il compito di rifornire di viveri i partigiani. Dal n. 70 al n. 76 vi era una formazione partigiana sistemata in appartamenti di gente sfollata; questa formazione partigiana fu mandata via pochi giorni prima del 14 novembre 1944. Quel giorno, alle ore 14,30, mi trovavo alla finestra quando vidi arrivare molti tedeschi in assetto di guerra, con carri armati, camion, mitraglie e mitra alla mano. Circondarono la zona: via Oretti, Emilia Levante, vivaio «Ansaloni» e incominciarono il rastrellamento in tutte le case dal 48 al 76 di via Emilia Levante. Tutti gli uomini vennero presi e fatti salire su di un camion. Fra questi vi erano Pasquali e Piva. (…) vidi arrivare Walter Busi che stava rincasando; (…) immediatamente fu circondato dai tedeschi e fatto salire, con le mani alzate, sul camion con gli altri. Ignoro se fosse armato. Arrestarono in tutto 17 uomini e 2 donne: io ed una donna di 64 anni abitante al n. 70 (…). Verso le 16 tolsero l’accerchiamento e ci portarono con loro lasciandoci tutti insieme in un camion. Così ebbi modo di parlare con Pasquali e con Busi, il quale disse di avere visto poco prima dell’arresto un suo famigliare. (…) la sorella Cordella. In un primo tempo ci portarono in via Magarotti, dentro la caserma. Pasquali disse: «Se ci fermiamo qui per me è finita», spiegando che proprio lì poco tempo prima era stato torturato. Infatti, era stato torturato dallo stesso Tartarotti in quella caserma, poi lo avevano mandato al Sant’Orsola piantonandolo, ma qui, con l’aiuto di molti amici era riuscito a fuggire. Fortunatamente qui non ci vollero e fummo portati in via Manzoni, ma neanche lì, benché i tedeschi discutessero a lungo con le brigate nere, riuscirono a farci entrare. Proseguimmo allora fino alla caserma di artiglieria di porta San Mamolo e, non trovando ospitalità, decisero di portarci nelle carceri di San Giovanni in Monte. (…) L’attenzione dei fascisti fu subito attratta da Pasquali e Busi. Uno di loro (…) chiese a Busi: « Come ti chiami? » Busi disse il nome di battaglia Michele. [il milite o ufficiale fascista] allora disse: « No! Tu sei Walter Busi, finalmente ti abbiamo preso e ti uccideremo!» Busi rispose: «Fate pure, dietro di me ce ne sono migliaia!» Tutti gli altri uomini vennero messi a confronto con quel partigiano tedesco, il quale fu costretto, sotto tortura, a riconoscere quelli che frequentavano il n. 68. Tutti quelli che aveva visto in quella casa sono morti. Dopo sette giorni che ero in carcere mi portarono in via Santa Chiara per l’interrogatorio.(…) Ritornata al carcere fui messa con altre persone su un camion (…) Un uomo mi disse di avere visto Busi e Pasquali morti in una cella del carcere di San Giovanni in Monte, assieme ad altri tre che non conoscevamo.

La cattura e la morte

Portato al carcere di San Giovanni in Monte il giorno stesso, come mostra la sua matricola d’ingresso n. 12220 nella foto che alleghiamo, rimase a disposizione del Comando tedesco

Sopra, la matricola in entrata nel carcere bolognese di Giordano Walter Busi. Sotto, quella in uscita, senza firma. Foto nostre.
Sopra, la matricola in entrata nel carcere bolognese di Giordano Walter Busi. Sotto, quella in uscita, senza firma. Foto nostre.

 

SS, ma in realtà nelle mani dei militi repubblichini, che lo avevano riconosciuto. Quando Paola Rocca, dopo il suo interrogatorio effettuato dalle SS in via Santa Chiara, vi fece ritorno (intorno al 21/22 di novembre) ed ebbe modo di parlare con uomini che erano stati rinchiusi nel settore maschile di San Giovanni in Monte, venne a sapere che Busi e Pasquali probabilmente erano stati ammazzati già in carcere. Sulle matricole in uscita di entrambi (vedi foto sotto) effettivamente mancano le firme, ma per ciascuno la stessa mano scrive la medesime annotazione : “Messo in libertà il 18-11-1944 in seguito a notifica del Comando S.S. per rilascio”. La stessa annotazione con la stessa grafia che compare per tutti gli altri fucilati del 18 novembre 1944.

E’ possibile dunque che Busi e Pasquali (mantenuto sotto il falso nome di Nozzi Luigi– vedi §.11.3.), ormai cadaveri, siano stati aggiunti agli altri corpi dei fucilati quello stesso giorno al Poligono di tiro al momento del trasporto alla Certosa.

 

da completare

Note :

(1)Mazzetti Marino nacque a Casalecchio di Reno il 30 giugno 1909 da Raffaele ed Ermenegilda Mattei. Di famiglia contadina, che lo educò a sentimenti antifascisti, frequentò le scuole fino alla 3a elementare, poi fu avviato al lavoro, prima come fattorino tappezziere, poi dal ‘21 al ‘27 come pasticciere, in seguito come pastaio, allorchè -tra il ‘28 ed il ’29- per 17 mesi fu dipendente presso la ditta Bertagni di Bologna. Dal ‘24 aderì alla FGCI; fu arrestato una prima volta il 24 gennaio 1927, con molti altri attivisti, come conseguenza di un’ampia azione di propaganda svolta nel bolognese per ricordare la fondazione del PCI. Fu rinchiuso a San Giovanni in Monte, poi nel carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia, contestualmente schedato, poi prosciolto con sentenza del 25 giugno ’28 per non luogo a procedere e scarcerato nel luglio del ’28 insieme al fratello Ettore ed altri. Nel novembre 1928 fu nuovamente fermato per cinque giorni in occasione dell’anniversario della rivoluzione d’ottobre. Dal novembre ’29 al giugno ’30 si rese latitante, essendo ricercato dalla polizia, a seguito dell’arresto di numerosi giovani comunisti. Fu stralciato – da latitante- dalla sentenza del 19 maggio ’30 che riguardò un gruppo di comunisti operanti a Bazzano.

Nel luglio ’30 espatriò clandestinamente in Francia. A Parigi trovò lavoro come imbianchino per una ditta di allestimenti per la fiera campionaria. Nel novembre fu inviato dal PCI in URSS per frequentare un corso presso la scuola “Zapata” di Mosca. Nel febbraio del ’31, dopo molti arresti in Italia ai danni di giovani ed adulti iscritti al PCI, il partito lo fece ritornare in Francia.

Da completare e rivedere

(2)Negrini Paolo da inserire

(3)Marmocchi Giuseppe da inserire

(4) Mazzetti non fu inviato al confino perché già fuggito all’estero. Vedi nota (1).

(5) I confinati giungevano a Ponza in piccoli gruppi, incatenati fra loro. Al momento dell’arrivo ricevevano un libretto rosso sul quale erano indicate le 26 regole del confino, da osservare rigidamente e per tutti l’impatto con la nuova vita era devastante.

I confinati politici, salvo pochissime eccezioni, erano sistemati nell’edificio denominato ‘Bagno’, che non rispondeva neppure alle più elementari norme d’igiene. Nei locali, umidi e poco arieggiati, alloggiavano circa duecentosettanta persone, delle quali ottanta in due corridoi. Lo spazio riservato a ciascun confinato era talmente ristretto che non tutti potevano tenere presso di sé il corredo personale. Le latrine erano vicinissime ai dormitori ed emanavano un fetore insopportabile.

I confinati poi si dovevano adattare alla precarietà dei rifornimenti, alla fame ed alla sete causa cibo e acqua scarsissimi, alle angherie dei militi, alla mancanza di comunicazioni, alla noia. A quasi tutti infatti era consentito muoversi in uno spazio ristretto, compreso tra il tunnel di Sant’ Antonio attiguo a via Dante, la contrada Guarini e la contrada Dragonara, una passeggiata di poche centinaia di metri nell’ arco di cerchio della via principale, che essi percorrevano da un capo all’altro cinquanta volte al giorno, e dove si incontravano cinquanta volte le stesse persone. Le mense dei vari gruppi servivano solo per soddisfare le necessità fisiologiche e non diventarono mai i cenacoli politico-culturali vivaci che erano nati in altre colonie confinarie, come Ustica ad esempio. A loro era proibito non solo di discutere di politica e fare propaganda, ma anche frequentare pubbliche riunioni, oltre a tenere relazioni con donne o ubriacarsi. Anzi i confinati ritenuti più pericolosi furono fatti pedinare notte e giorno senza interruzione, tanto che il confino fu così inasprito da provocare manifestazioni di protesta e scioperi che furono repressi con durezza, con aggiunte di periodi di detenzione (come accadde anche a Busi più volte), di solito scontati a Napoli Poggioreale.

(6) Marocchi Armando da inserire

(7) Vedi testimonianza di Walter Nerozzi, in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag.276.

(8) Testimonianza di Giuseppe Rosini, in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag. 191. Giuseppe Rosini era stato condannato nel ‘37 assieme a Busi per aver militato anch’egli nel Fronte della Gioventù (la denominazione originaria della Federazione Giovanile Comunista, adottata poi dalle formazioni di estrema destra negli anni ’70, quando fare confusione tra rossi e neri risultò una pratica comune e vantaggiosa per i neri). A differenza di Busi ottenne nel ’40 il condono per la nascita di M. Gabriella di Savoia. Rosini dopo essersi unito al gruppo di Busi citato con cui rimarrà fino al marzo del ’44, accompagnato da Sigfrido, si recherà a combattere in Veneto con altri giovani partigiani bolognesi.

(9) Seguendo Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III riteniamo di poter identificare in Jim il partigiano Giorgio Pezzoli, che combattè in Veneto, di cui racconta a grandi linee la vicenda Athos Druidi alle pagg. 187-191.

(10) Lo attesta Renato Frabetti in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag. 375, che indica Walter Busi come suo contatto politico antifascista della prima ora.

(11) In Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag. 84, testimonianza di Gino Zecchini, operaio SASIB.

(12) Luigi Gaiani in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag.274.

(13)Testimonianza di Irnerio Minella in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag.156.

(14) Vedi testimonianza di Giorgio Scarabelli, in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag. 150.

 (15) Vedi testimonianza di Rinaldo Marabini, in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag. 142.Marabini venne arrestato la sera prima dello sciopero e la sua casa venne perquisita per la ricerca di armi e materiale, che non furono trovati perché la moglie li aveva nascosti in precedenza.

(16) e (16 bis) Testimonianza di Dovilio Chiarini in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag.137 e 138.

(17) Testimonianza di Irnerio Minella in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag.156.

(18) In Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag.454, testimonianza di Bruno Corticelli.

(19) Il Comando Piazza era un organismo periferico del CUMER( Comando Unificato Militare dell’ Emilia Romagna) . Il CUMER nacque nella tarda primavera del ’44 (vedi §.   ), come espressione militare regionale del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia). Il Comando Piazza si costituì più tardi, il 1./8/’44, e fu invece l’organizzazione militare unitaria a livello provinciale, creata allo scopo di coordinare in sede locale le iniziative militari dei vari gruppi partigiani di orientamento politico diverso, soprattutto in vista della liberazione delle singole città. I suoi primi dirigenti, quasi tutti ufficiali dell’esercito, furono il col. Mario Trevisani “Guido” comandante; il col. Mario Guerman* “Guerra” e col. Michele Imbergamo vice; Giacomo Masi “Giacomino” commissario politico e col. Giuseppe Bonino vice; ten. Col. Giovanni Pascoli capo di stato maggiore.

(20) Testimonianze concordanti, in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, di Enrico Bettini a pag. 420/1 e di Renato Capelli, a pag. 413.

(21) Enrico Bettini in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag. 420/1

(22) L’annuncio radiofonico del generale inglese Alexander (Harold Rupert Leofric George Alexander, I conte Alexander di Tunisi), Comandante della V Armata, che combatteva sulla Linea Gotica lungo l’Appennino Tosco-Emiliano. A differenza di quanto inizialmente preannunciato, in questa dichiarazione trasmessa per radio si dava avviso che la controffensiva alleata si sarebbe interrotta per tutto l’inverno, senza avanzare a Nord verso la pianura padana, quindi anche verso Bologna, per le difficoltà incontrate : climatiche, di spostamento, di resistenza tedesca..

(23) Lo troviamo nella testimonianza di Ottavio Baffè in Bergonzini- L. Arbizzani La resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti. vol. III, pag. 93 e nello stesso santino distribuito al funerale di G.W. Busi, che abbiamo inserito all’inizio di questa sua biografia.

(24) Paola Rocca in Bergonzini- L. Arbizzani La Resistenza a Bologna Testimonianze e documenti. vol. III, pag. 128/9.

(25) Secondo il testo pubblicato nel 2004 da M. Canali, Le spie del regime, p.353, nel 1935 Gustavo Busi iniziò a collaborare con lʼOvra e svolse la funzione di informatore per la polizia segreta del regime fascista.

 

 

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