I caduti : Don Antonio Lanzoni

Don Antonio Lanzoni nacque il 16 settembre 1871 a Granarolo Faentino (oggi in prov. di Ravenna), primogenito di Vincenzo, bracciante, e di Teresa Ravagli, i quali, dopo di lui, ebbero altri cinque figli, tre femmine e due maschi. La famiglia numerosa, come era d’abitudine per quei tempi in cui per i contadini le braccia erano una risorsa, era rappresentativa delle condizioni delle nostre campagne agli inizi del ‘900 ed alla grande povertà affiancava una profonda religiosità, che permeava la vita quotidiana di tutti i componenti, tanto che tra i figli, oltre al primogenito, presero i voti anche la sorella secondogenita Santina, suor Maria della Sacra Famiglia, insegnante in un istituto religioso torinese, dove venne insignita della medaglia al merito per la redenzione sociale nel 1900, in virtù dell’opera educativa svolta a favore delle ragazze ; ed il fratello più piccolo, Domenico, da bambino falegname, che aderì all’ordine di Don Bosco, dopo esser stato salesiano laico, insegnando per il resto della vita ai giovani la falegnameria presso i Salesiani del Veneto e della Lombardia. Il fratello di mezzo, Angelo, si sposò, ma – pur conservando lo stato laicale- rimase sempre nell’orbita dei Salesiani, per i quali svolse la sua attività di fornaio.

I caduti : Don Antonio Lanzoni
Don Antonio Lanzoni. Foto da C.Missiroli “Don Antonio Lanzoni sacerdote e martire”, 2005

 

Don Lanzoni studiò nel seminario di Faenza e fu a ventitrè anni che venne precocemente ordinato sacerdote, grazie ad una speciale dispensa papale di Leone XIII, che il 9 dicembre 1894 gli consentì, il 22 dicembre successivo, di prendere i voti con un anno di anticipo rispetto alla norma. Per un biennio fu cappellano nella parrocchia di S. Lucia delle Spianate, dopo di che fu nominato sacerdote di Montecchio il 13 ottobre 1897, ma vi si insediò solo a partire dal marzo successivo, portando a vivere con sé anche i genitori e le due sorelle nubili fino al loro matrimonio. Dopo la morte del padre, avvenuta il 9 dicembre 1918, che fino ad allora aveva lavorato come colono nelle terre della parrocchia, Don Antonio rimase solo con la madre, poi anche lei venne meno, il 31 marzo 1926. Ad occuparsi delle faccende in chiesa e in sacrestia fu quindi incaricata Maria Nonni, la perpetua che era con lui anche quando, nell’ottobre’44, fu prelevato in canonica dalle Brigate Nere e trascinato via.

Don Antonio nella sua parrocchia rimase per ben quarantasei anni, impegnato nel suo ministero e vicino ai suoi parrocchiani, riuscendo a far costruire una nuova chiesa, in sostituzione della vecchia ormai cadente, ma dibattendosi continuamente in difficoltà materiali e navigando sempre in cattive acque quanto a gestione dei beni ecclesiastici e suoi personali, tanto da rasentare le dimissioni :“.. il prete più buono e più povero di tutti quelli che ho conosciuto, che stava senza mangiare lui, per darne ai poveri” secondo la testimonianza di chi lo conobbe e gli fu vicino e familiare (2).

Proprio questa sua abitudine alla carità, elargita senza fare differenze tra chi chiedeva o aveva bisogno, probabilmente lo espose ai sospetti delle autorità del regime e finì per farlo diventare un obiettivo della repressione nazifascista. Nel contempo, l’età avanzata, il malandato stato di salute, l’ingenua bontà d’animo, tutta una vita scandita dai ritmi atavici delle stagioni e dalle tradizioni, quasi esclusivamente a contatto con poveri contadini timorati di Dio e trascorsa nell’isolamento di un fazzoletto di terra in montagna, dove del presente giungeva solo un’eco lontana e attutita, non gli permisero di raggiungere un’esatta percezione della ferocia dei tempi in cui viveva e lo resero sordo agli inviti alla prudenza ed ai consigli di chi era più accorto di lui, quando sarebbe stato necessario.

11.5.3.1. L’antefatto

 Nella zona di Montecchio, che si trova sulla fascia collinare a 4 Km circa da Brisighella e a 12 Km da Faenza, fino ad allora pattugliata da tedeschi e repubblicani, dal settembre del ’44, man mano che il fronte si avvicinava con l’avanzata degli alleati, cominciò ad intensificarsi anche la presenza di partigiani della 36ª Brigata “Bianconcini Garibaldi” guidati da Bob Tinti (vedi §§.10.2.1-10.2.4 ), in particolare quelli del  II battaglione “Ravenna”, al comando di Ivo Mazzanti Ivo, che aveva avuto l’ordine di avanzare su Faenza in attesa della Liberazione e che verso fine settembre si diresse in prossimità di Montecchio per poi raggiungere da lì Pideura e Pegola. Col battaglione “Ravenna” c’era il gruppo partigiano di Mario Badiali “Celso Strocchi”, comandato da Sesto Liverani Palì, della 28ª Brigata “Mario Gordini”, quella -per intenderci- di Arrigo Boldrini, il comandante Bulow. Nel complesso più di duecento uomini.

Poiché però gli alleati incontrarono più ostacoli del previsto che rallentarono (poi fermarono per tutto l’inverno del ’44) l’avanzata, i partigiani di Mazzanti decisero di riconfluire alla Cavina, per riunirsi al grosso della Brigata-come sappiamo già dal §10.2.2- e durante l’arretramento a sud si sistemarono intorno al 1 ottobre sui calanchi di Montecchio, trovando riparo nei cascinali sparsi dei contadini, nelle case attorno alla chiesa e probabilmente anche nella canonica di Don Antonio, secondo quanto attesta un opuscolo (3) che fu pubblicato nel ’45 dalla Diocesi di Faenza, citato da (1).Ma il 3 ottobre arrivarono segnalazioni sulla presenza di Tedeschi, che spinsero Ivo alla decisione di spostarsi ancora più a sud, per evitare ai suoi uomini e agli abitanti del territorio di incorrere in rappresaglie.

In zona rimasero solo il gruppo di Palì e la compagnia di Attila, Antonio Mereu, collocata a Ca’ di Gallo. Ci fu però, probabilmente intorno al 6 ottobre, uno scontro tra partigiani ed alcuni soldati tedeschi, impegnati a scavare una trincea per controllare una linea telefonica di collegamento tra il comando tedesco di Brisighella e quello di Riolo, che sfociò nell’uccisione di un sott’ufficiale e nella fuga dei restanti soldati. Il cadavere del tedesco fu sepolto nel cimitero in disuso della Parrocchia,  appena ricoperto di terra. A seguito di ciò i partigiani decisero perciò di lasciare il campo, consigliando la popolazione di fare lo stesso, per non andare incontro alle ritorsioni nazifasciste.

11.5.3.2. La rappresaglia e l’arresto

Nella prima domenica di ottobre del ’44 diversi testimoni videro, tra la foschia e l’abbaiar dei cani, gente inerpicarsi sulle alture di Montecchio e poiché si sapeva dell’uccisione di un tedesco, molti si affannarono a nascondersi o a trovare riparo, mentre passavano parola per avvisare gli altri e scampare alle Brigate nere e ai Nazisti, che stavano mettendo in atto la loro attesa e tenuta rappresaglia.

Le BBNN e i nazisti tuttavia riuscirono a prelevare e portare con sé tre ostaggi, Giosuè Dongellini, Leonardo Cappelli e Don Antonio Lanzoni, trascinandoli via scalzi fino a Villa S. Prospero, dove furono rinchiusi in stanze separate. In seguito Giosuè Dongellini fu portato ad Ostiglia, a lavorare alle fortificazioni della linea sul Po, Cappelli fu protetto e infine liberato da un soldato tedesco che era stato ospite a casa sua e che egli aveva aiutato, mentre il vecchio sacerdote rimase nelle prigioni di Faenza per una settimana circa, poi fu trasferito a Bologna, dove fu internato nel carcere di San Giovanni in Monte il 16-10-’44.

La rappresaglia e l’arresto
Don Lanzoni seduto nella sua aia, foto tratta da C.Missiroli “Don Antonio Lanzoni sacerdote e martire”, 2005

 

Fin dalla sera prima il parroco era stato avvisato della minaccia incombente, ma non aveva voluto saperne di abbandonare la sua chiesa, sottovalutando il pericolo. I fascisti lo arrestarono mentre era in camera sua, tranquillo, e lo portarono via così com’era, senza l’abito talare e con le ciabatte, che egli perse durante il tragitto, che dovette affrontare tutto a piedi, mentre veniva strattonato e spinto con violenza in avanti, dietro al camion, su cui erano stati caricati gli altri due ostaggi con i militi.

Le testimonianze, che permisero di ricostruire i fatti che portarono all’arresto di Don Lanzoni, e che hanno sempre sostenuto che al prete romagnolo fu teso un tranello da parte delle Brigate Nere per comprovare la sua collusione con i gruppi partigiani, oggi hanno trovato conferma nella dichiarazione rilasciata a Clementina Missiroli (1) da un  anonimo  ex-appartenente alle Brigate Nere di Faenza, che ha raccontato che il gruppo di fascisti saliti a Montecchio l’8-10-‘44 indossò attorno al collo i fazzoletti rossi dei partigiani e  chiese al sacerdote di consegnare loro ”i timbri“, cioè i cosiddetti “buoni sostitutivi o di requisizione”, una sorta di “pagherò”, con cui i partigiani si impegnavano a rimborsare a fine guerra  i beni materiali o alimentari che venivano forniti loro dalla popolazione. Senza nemmeno notare che i fazzoletti rossi erano portati sulle camicie nere, Don Lanzoni glieli aveva consegnati, tradendosi e condannandosi. Ma è probabile altresì che informatori della zona avessero già avvisato chi di dovere che il parroco forniva aiuti ai partigiani insediatisi nelle montagne vicine, anche solo allo scopo di evitare di diventare vittime di rappresaglie .

11.5.3.3. A Villa San Prospero

Per ottenere clemenza per il suo parroco, intervenne diverse volte Mons. Battaglia, sia presso Raffaele Raffaeli, massima autorità fascista faentina, benchè allora solo ventitreenne, sia con il comandante tedesco colonnello Salzer, tuttavia senza alcun esito. Mons. Battaglia, infatti, era l’aiuto che la Santa Sede aveva inviato nell’ottobre del ’43 al vescovo Mons. Scarante, in precarie condizioni di salute, allo scopo di sostenerlo nel difficile momento bellico e divenne poi egli stesso vescovo di Faenza,  nel dopoguerra decorato con medaglia d’argento per l’opera di assistenza fornita alla popolazione durante il conflitto.

Mons. Battaglia incontrò in carcere Don Lanzoni e fece tutti i passi possibili per sottrarlo ad una condanna, ma gli si oppose l’ostilità di Raffaeli e, probabilmente, rischiò egli stesso per le imprudenze di Don Lanzoni, sia prima che dopo l’arresto. Stando infatti a quanto riferito da alcuni parrocchiani, il sacerdote riportò in giro, forse con troppa leggerezza, che certe derrate alimentari il vescovo le aveva fatte pervenire in parrocchia per distribuirle ai partigiani e forse anche in sede di interrogatorio, frastornato e confuso come visse i suoi ultimi giorni, potè lasciarsi andare ad affermazioni compromettenti, senza valutarne appieno il peso incriminatorio.

Nel suo paese non seppero più nulla di lui dal momento in cui lasciò Faenza, fino alla liberazione di Bologna, il 21 aprile 1945, quando si diffuse la notizia della sua fucilazione al Poligono di tiro di via Agucchi.

11.5.3.4. Nel carcere di Bologna

A San Giovanni in Monte, Don Lanzoni fu rinchiuso in uno stanzone sotterraneo con un’altra cinquantina di uomini, tutti detenuti politici, tenuti sotto la sorveglianza delle SS. Lì –come abbiamo già anticipato nel § 11.4., trovò altri tre sacerdoti : Don Ivo Silingardi, che aveva allora 24 anni, e prima dell’arresto aveva contribuito alla nascita della brigata “Italia”, un gruppo partigiano modenese di ispirazione cristiana, che aveva raccolto ragazzi anche dalla provincia, di cui il giovane prete aveva curato organizzazione, sussistenza, occultamento e trasferimenti in montagna all’occorrenza, e che era stato denunciato da una staffetta catturata dai fascisti, che lo fece arrestare il 15 settembre ’44 con altri; don Arrigo Beccari, oggi ricordato nel giardino dei Giusti delle Nazioni a Gerusalemme, che aveva nascosto a Villa Emma tanti giovani ebrei, fatti espatriate con documenti falsi stampati in una tipografia clandestina, arrestato con Don Ennio Tardini, suo collaboratore e compagno di azione nel seminario di Nonantola.

Nel carcere di Bologna
Matricola in entrata del carcere di Bologna, San Giovanni in Monte, di Don Lanzoni.

 

Al momento del suo accoglimento in seno a questo gruppo, Don Antonio Lanzoni dette segno di essere ancora vittima di uno stato confusionale, dimostrando di non aver ancora capito chi lo avesse arrestato e perchè, incolpando prima i partigiani, poi gli alleati. Solo il giorno dopo rivelò ai sacerdoti di condividerne la condizione, pur essendo privo di tonaca. Rimasero insieme un mese circa, trasferiti in un secondo tempo in una cella separata dagli altri, nei pressi del corpo di guardia. In quei giorni si fece voler bene anche dai confratelli per la semplicità d’animo, la bontà e la carità cristiana, condividendo con i sacerdoti modenesi i ricordi delle feste della sua parrocchia, la passione per la caccia, fin a parlare degli uccelletti arrosto catturati da lui che ne allietavano le tavole, l’amore per la famiglia natale. Confidò a Don Arrigo di aver murato nel forno della canonica il calice della sua chiesa per impedirne il trafugamento e fu cura di Don Beccari, dopo la guerra, di avvisare il vescovo di Faenza del fatto, scagionando da ingiuste accuse la perpetua, Maria Nonni.

10.5.3.5. La fucilazione

 Don Silingardi ha ricordato che la notte prima della fucilazione di Don Antonio, egli fece un sogno che raccontò agli altri parroci il giorno dopo, considerandolo di buon augurio : aveva visto San Martino, patrono della sua chiesa e suo protettore, che gli annunciava che in giornata sarebbe venuto a prenderlo e a portarlo a casa. Quando, unico del gruppo, le guardie lo chiamarono di buon mattino, mentre gli legavano le mani, salutò tutti augurando loro allegramente un arrivederci a Brisighella, convinto di essere liberato, mentre gli altri ben capirono invece quale fosse il destino che lo attendeva.

Unito agli altri detenuti scelti per la rappresaglia, firmò la sua uscita dal carcere, forse ancora ignaro della prossima esecuzione e con gli altri salì sul furgone che li portò al Poligono di tiro di Bologna, nella periferia ovest della città.

La fucilazione
Matricola in uscita dal carcere di Bologna di Don Lanzoni.

 

Il suo funerale si tenne il 29 novembre 1945 nella cattedrale di Faenza, dopo che si seppe della sua esecuzione a Bologna e dopo che il suo cadavere, sepolto in una fossa comune alla Certosa, fu ritrovato, riesumato e riconosciuto dai parenti, infine traslato con il denaro necessario, racimolato mediante una raccolta a cui dette un contributo anche il comune di Brisighella, dove nel frattempo era divenuto sindaco Palì, cioè Sesto Liverani, che fece deliberare dalla sua giunta la partecipazione alla spesa. La sua salma fu portata a spalla da quattro sacerdoti, infine tumulata nella cappella dei parroci del piccolo cimitero di San Rufillo, dove riposa tuttora.

La fucilazione
Santino di Don Lanzoni distribuito al suo funerale. Foto tratta da C.Missiroli “Don Antonio Lanzoni sacerdote e martire”, 2005.

 

Nel dopoguerra, in un’epoca contrassegnata da tensioni che divisero profondamente e duramente quelle forze che, unite, avevano animato la Resistenza, contrapponendo moderati cattolici e partiti popolari di sinistra, sorsero polemiche che presero a pretesto anche la vicenda di Don Lanzoni e si rimproverò ai partigiani un presunto mancato rispetto e riconoscimento verso Don Lanzoni a partire fin dal funerale, che fu smentito dagli interessati. Citiamo queste polemiche per correttezza e completezza storiografica, ma preferiamo passare oltre: per fortuna in questa ricerca non siamo tenuti a raccontare cosa venne dopo.

(1)Sulla figura di Don Antonio Lanzoni esiste una ricerca monografica assai ben documentata dal titolo Don Antonio Lanzoni sacerdote e martire, pubblicata nel 2005, della Prof.ssa Clementina Missiroli, che ha sviluppato il suo lavoro a partire da un primo piccolo nucleo di materiale e testimonianze raccolti durante un’attività scolastica svolta con la sua classe III A della Scuola Media di Brisighella nell’anno scolastico 2002-2003 ( come è successo per questo stesso lavoro dei fucilati al Poligono di Bologna), a cui rimandiamo per chi è interessato ad approfondire le conoscenze su questo anziano sacerdote di Montecchio e da cui noi abbiamo tratto le informazioni relative agli snodi fondamentali della sua vicenda.

< Vai al paragrafo precedente

Leggi il paragrafo successivo >

(2) Domenico Gentilini, pag. 55 in C.Missiroli Don Antonio Lanzoni sacerdote e martire, 2005.

(3) Documentazione. L’opera del clero a Faenza e diocesi nel periodo 1943-45, Faenza, Lega, 1945, pag. 48.

Chiudi il menu