Il ruolo di Tartarotti a Bologna.

Figlio primogenito di Azzoni Argia e di Stellino, Renato Tartarotti era originario di Mantova, dove era nato il 26 gennaio 1916 in una famiglia che divenne ben presto numerosa, con la nascita di altri quattro maschi. A Mantova frequentò le scuole elementari,  ma  abbandonò gli studi per fare il venditore ambulante.

Nel 1934 a 18 anni si trasferì a Bologna con la famiglia e qui iniziò la carriera militare:  si arruolò volontario come fante, iscrivendosi ad un  corso allievi sottufficiali dove venne promosso al grado di sergente. Nel 1935 si arruolò volontario nella divisione Granatieri-mitraglieri “Savoia”, con destinazione l’A.O.I (Africa Orientale Italiana) ed operò soprattutto nelle regioni dei Galla e dei Sidamo, in Etiopia sud-orientale, partecipando ad alcune azioni belliche.

Ottenuto il congedo, tornò in Italia, trovò impiego a Bologna presso la ditta Petroncini come rappresentante fino al ’39, poi venne assunto come archivista nel Fabriguerra (Il Ministero della produzione bellica) fino al suo licenziamento per irregolarità. Rientrato nell’esercito, fu impiegato con il grado di sergente maggiore anche in Croazia e Slovenia.

Durante il processo, nella gabbia degli imputati, alla Corte d'Assise Straordinaria di Bologna, da sinistra a Destra, Tartarotti, Molmenti, Alberto e Paolo Gamberini.

Dopo l’armistizio tornò a Bologna e si arruolò nella polizia (prima federale e poi ausiliaria) e fu allora che la sua carriera ebbe un’impennata, a seguito del suo incontro con Giovanni Tebaldi,  che era arrivato a Bologna fin dal  novembre 1943 per ricoprire il ruolo di questore, dopo essersi distinto per la fedeltà fascista a Perugia dopo l’8 settembre, allorchè si autonominò capo della polizia ed eseguì numerosi arresti, compresi quello del prefetto e del questore di Perugia.

Tebaldi scelse Tartarotti come sua guardia del corpo, poi, in occasione del mortale attentato al federale Facchini, lo coinvolse nella repressione che ne seguì, compresa la fucilazione per rappresaglia, che il questore affidò proprio a lui, a seguito della quale Tartarotti rimase ferito ad una coscia e fu ricoverato in ospedale per circa un mese. Quindi lo premiò con il grado di sottotenente, lo spedì ad un corso di formazione, tornato dal quale gli dette l’incarico di comandare con il grado di capitano un reparto autonomo della Polizia ausiliaria, dal giugno all’ottobre 1944, affidandogli il compito del contrasto alla lotta partigiana.

Fu in questo intervallo di tempo che avvennero alcuni degli episodi più cruenti compiuti da Tartarotti e dalla C.A.S., poi contestatigli durante gli interrogatori seguiti all’arresto : l’uccisione alla Certosa la notte del 1 aprile del ’44 di Edera De Giovanni, Egon Brass e compagni, la fucilazione per rappresaglia del 30 agosto del ’44, seguita al rapimento e morte di Zambonelli, l’impiccagione di Stelio Polischi, le torture inflitte ai tanti partigiani, ma anche semplici cittadini a cui estorcere denaro e valori come il gioielliere Rubbi, portati alla sede della C.A.S., al piano inferiore della villa abitata dal questore Tebaldi in via Siepelunga, la “Villa Triste” bolognese, in cui tanti perdettero la vita, come Irma Bandiera.

Anzi, a Villa Camponati, in via Siepelunga, come accertò “la Corte, si istituì una sorta di «seconda questura che si occupava di fatti politici» e che, «se anche amministrativamente era autonoma, funzionalmente dipendeva dal Questore e ne costituiva il corpo di guardia» La compagnia infatti era comandata da Tartarotti ma riceveva ordini anche da Tebaldi che «aveva sul Tartarotti piena autorità sia di diritto che di fatto»”. (vedi bibliografia/ sitografia : I.Manchia).

Tartarotti e la Compagnia autonoma speciale, o C.A.S., continuarono a operare a Bologna fino al settembre 1944, dopo di che il reparto fu spostato a Trieste, dove era già stato trasferito Tebaldi, sostituito a Bologna da Fabiani. Tartarotti e Fabiani  entrarono in conflitto  soprattutto dopo che il capitano della C.A.S. si rifiutò di comandare la fucilazione dei membri del Partito d’azione condannati a morte.

Questo rifiuto per Tartarotti rappresentò la fine della parabola ascendente e l’inizio della caduta. Montarono contro di lui le accuse di irregolarità nella gestione finanziaria del corpo, che si tradussero in una denuncia prodotta dallo stesso questore Tebaldi.

Il questore Tebaldi perciò fu all’origine dell’ascesa ma anche della caduta di Renato Tartarotti, che nel momento per tanti del “si salvi chi può” divenne il capro espiatorio su cui far convergere in via esclusiva tutto l’odio popolare e la responsabilità dei crimini perpetrati, mentre altri, più in alto, si preparavano la strada della salvezza, prendendo le distanze da lui e avvicinandosi alle nuove forze emergenti della nazione.

 

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